Il Primo Costume di Felicia

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view post Posted on 2/11/2013, 12:33
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«Felicia?».
Felicia grugnì nel buio della stanza. Si sentirono distintamente le catene strisciare lontano dalla luce e un rantolare sommesso, spaventato e implorante. Nonna Vanna rimase sulla soglia e inalò pian piano l’odore di carne umida e muffa, un odore tanto invasivo e famigliare da potersi considerare un normale mobilio della stanza.
«Felicia, tesoro, posso entrare?», chiese Nonna Vanna tendendo le orecchie verso la stanza.
Felicia ruggì sommessamente. Vanna annuì sorridendo, accese una candela aromatizzata ed entrò nella stanza strisciando nelle pantofole.
Trovò Felicia in un angolo della stanza, tra il termosifone e la libreria, stretta contro il muro con la testa piegata all'ingiù a mostrare la nuca da cui scendevano i capelli lunghi e unti. Tremava e gemeva terrorizzata, avvolta nella camicia di forza cucita personalmente dalla Nonna.
Vanna si inginocchiò davanti la nipote, le accarezzò i capelli e le baciò la testa, facendo passare una mano sulla camicia macchiata di unto e sudore.
«Mi sa tanto che te la dobbiamo cambiare questa».
Tirò fuori un pettine dal tascone del grembiule a fiori e cominciò pettinarla, scansandosi di tanto in tanto per evitare i morsi della nipote.
«Abbiamo avuto ospiti oggi, lo sai?».
Felicia grugnì rabbiosa.
«No, tesoro. Troppo piccoli e grassi per te. E qualcuno di noi è a dieta qua, dico bene?».
Nonna Vanna levò con la mano un filo di bava densa che colava dalle labbra di Felicia, si pulì sul grembiule e continuò a pettinarla.
«Comunque erano questi due bambini vestiti da scheletri. Erano così carini… Apro la porta e li trovò proprio lì con questi cestini a forma di zucca e gli chiedo ‘cosa state facendo, bambini?, e loro mi dicono che c’è questa cosa che si chiama “Halloween”. È una specie di festa, boh, e loro si vestono da mostri e vanno in giro a chiedere le caramelle nelle case della persone e a spaventare gli altri bambini, tutte cose così, tutte cose molto buffe, ecco».
Diede un ultimo colpo di spazzola, le accarezzò i capelli con la mano piccola e percorsa da vene, gliela fece scivolare sotto il mento e le alzò il viso verso la luce.
Guardò la sua pelle umida e grigia, i pori grandi e profondi come crateri. Passò un pollice sulle ferite fresche e rotte. Doveva fare qualcosa con i muri di quella stanza, pensò Vanna. Se Felicia avesse continuato a strisciarsi sopra con la faccia probabilmente sarebbe rimaste sfigurata in poco tempo. Le abbassò il labbro inferiore, spaccato e tinto di croste di sangue scuro e le esaminò i denti sottili, gialli incastonati nelle gengive violacee.
«Pensavo che anche tu dovresti divertirti di tanto in tanto, come fanno quei bambini. Prendere un po’ d’aria fresca», si sporse in avanti e la sua voce si fece più acuta, vibrante di eccitante speranza, «Non dovresti avere paura delle persone. Per una notte, saranno tutti mostri là fuori, mostri come te, piccola mia, e tutti li vorranno bene e li accetteranno così come sono», le accarezzò il viso e un sorriso fragile le si disegnò in volto.
«Però dobbiamo trovarti un costume. Alla fine è come carnevale. Ci pensi, Felicia? Sarà il tuo primo carnevale, non sei contenta?».
Rimuginò un po’ finché non le venne un’illuminazione. Rimise il pettine in tasca e strisciò verso l’uscita.
«Credo di aver trovato quello che fa al caso nostro», disse prima di chiudersi la porta alle spalle.

Scese giù in cantina e prese un cestino per i panni avvolto in una tovaglia di tela cerata nera. Lo portò su, salendo faticosamente tre piani di scale. Arrivata a casa, levò la tovaglia e un tanfo dolciastro la investì facendole girare la testa.
Prese il primo campione del mucchio di pelle umana contenuta nel cestino. La guardò tendendola verso la finestra, l’appoggiò sul tavolo, s’inumidì il pollice e l’indice e sfogliò gli altri campioni.
Pelle nera, bianca, pallida e lentigginosa, brufolosa, olivastra e qualcuna addirittura un po’ ingiallita a causa dell’epatite.
Qualcun altro presentava ancora qualche traccia di sangue secco, conseguenza della goffaggine di chi era ancora alle prime armi.
Prese forbice, ago e filo e incominciò a lavorare sul vestito.

«Toc, toc…», Vanna si addentrò nella stanza di Felicia tenendo le braccia nascoste dietro la schiena.
Appoggiò una candela lungo la scrivania e l'accese.
Si mise di fronte Felicia, tirò fuori le braccia e rivelò il costume tanto faticosamente cucito.
«Ti piace? Mi sono chiesta cosa sarebbe andato bene per te, poi mi sono ricordata che da bambina mi vestivo sempre da Arlecchino, come i maschietti», disse ridacchiando.
Le mostrò il costume da Arlecchino, composto da triangoli di pelle umana di ogni tipo, di ogni razza, di ogni colore. Un Arlecchino di carne fatto su misura per lei.
Felicia grugnì. Vanna sorrise con la stessa emozione di una bambina che faceva un regalo alla mamma.
«Adesso dobbiamo solo mettercelo», disse Vanna appoggiando il costume su una sedia, tirò fuori una corda e un coltello e si avvicinò con cautela.

Vanna e Felicia girarono per le strade del paese, confondendosi in mezzo a piccoli spettri, scheletri, licantropi, alieni e vampiri che si inseguivano lanciandosi caramelle. Il costume ricevette le lodi che meritava. Così realistico, così spaventoso.
La signora dell’ultima casa era la più sorpresa e affascinata di tutti. Vanna arrossì e Felicia ricambiò i complimenti con grugniti sommessi.
Tra le lodi, Felicia sussultò e tossì, sporgendosi in avanti verso la signora che indietreggiò di un passo, disgustata, ma sempre un con un mezzo sorriso pieno di sorpresa infantile.
Felicia sputò un fiotto di sangue nero sul pavimento, vicino ai piedi della padrona di casa, la quale guardò quella macchia scura, sorpresa e spaventata. Poi, scoppiò in una risata ed esclamò.
«Cavolo! Pure il sangue finto, che brave! Sembra quasi vero!».
 
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