Ti dirò cos'è la bellezza, Racconto lungo in più capitoli

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falug
view post Posted on 24/1/2012, 15:13




1. Incontro

Quel pomeriggio, l’atmosfera uggiosa dell’autunno milanese gli aveva dato il colpo di grazia.
Decise di scendere al bar di fronte a farsi un buon aperitivo, prima della riunione serale con un possibile nuovo cliente del settore del vino. Salutò la segretaria, che stava per andarsene a casa, passò davanti all’ufficio del suo capo:
“Vado un attimo al bar”, disse.
“Ok.”rispose il direttore.” Mi raccomando, puntuale alle sei e mezza”.
Scese rapidamente i gradini e usci sulla strada dal grande portone del palazzo ottocentesco. S’immerse in quella pioggia sottile, dal mormorio sonnolento, che a lungo andare lo innervosiva. Preferiva di gran lunga le piogge battenti, magari con lampi e tuoni, da affrontare con apparente audacia, a viso aperto, cercando di sfondarne la cortina liquida con una rapida corsa.
Attraversò la strada ed entrò nel grande bar di fronte, in cui spiccavano il grande bancone ricolmo di pasticcini, brioches e panini e la lunga fila di tavolini a due posti, dal ripiano in finto marmo, lungo le pareti.
“Buona sera, dottore”, gli gridò il padrone da dietro il bancone.
“Buona sera, Emilio”, rispose Francesco, ”posso sedermi ad un tavolino?”.
“Certo, si accomodi dove preferisce”.
Francesco vide un tavolino in fondo alla sala, in penombra, proprio ciò che cercava per rilassarsi da quella giornata frenetica, e andò a sedersi.
Il cameriere si avvicinò e Francesco gli disse subito:
“Oggi voglio un buon aperitivo. Facciamo un negroni, con olive e patatine”.
“Subito, dottore”.
A quel punto, Francesco si appoggiò pesantemente allo schienale della sedia, chiuse gli occhi e cercò di rilassarsi, cercando di espellere dalle mani e dai piedi la stanchezza che sentiva in tutto il corpo.
Non si accorse del tempo che passava, né del cameriere che gli aveva portato l’ordinazione: rimase lì, ad occhi chiusi, pensando che non doveva pensare.
Fu richiamato alla realtà da una voce lontana, che arrivava da un mondo invisibile: aprì di colpo gli occhi, quasi spaventato e si trovò degli occhi azzurri che lo guardavano con sollecitudine, ad un palmo dal suo viso.
“Signore, non sta bene?”.
Francesco fece come fanno i cani quando sono bagnati, scrollò la testa come per liberarla da pensieri molesti, sbattendo un po’ gli occhi e poi guardò la proprietaria degli occhi azzurri e della voce accorata.
“Ma no…che dice signorina…signora… mi scusi. Solo un po’ di stanchezza, non si preoccupi”.
“Mi scusi Lei, se l’ho disturbata, m’ero spaventata, sembrava come svenuto”, disse la signora, ritraendosi.
A quel punto Francesco si ricordò che aveva avuto un’educazione dai suoi genitori e si alzò:
“La prego, signora, posso offrirle qualcosa? Per riprendersi dallo spavento?”.
“No, grazie, grazie, davvero. Devo andare, fra poco arriva l’autobus. Stia comodo. Buona sera”.
“Buona sera, signora, e mi scusi ancora”, disse Francesco, mentre la signora già si allontanava.
Così si risedette e cominciò a sorbire lentamente l’ottimo ma sostanzioso aperitivo che aveva ordinato, non pensando già più alla signora dagli occhi azzurri, ma ai clienti che stavano per arrivare per discutere della pubblicità sul loro vino di punta.
Non poteva certo immaginare che l’avrebbe rivista ben presto.
Successe appena tre giorni dopo. Era venuto in ufficio molto prima del solito, perché doveva prepararsi per una presentazione di una campagna pubblicitaria a vecchi e fedeli clienti, ed era sceso al bar verso le otto del mattino per fare colazione. Aveva ordinato al banco un cappuccino e una brioche e s’era avviato verso il tavolino che preferiva, in fondo alla sala. Ed ecco che il tavolino vicino era occupato dagli occhi azzurri della signora, che lo riconobbero e lo salutarono con un lieve sorriso e chinando il capo.
“Buon giorno, signora”, disse Francesco, sorridendo a sua volta.”Allora anche Lei lavora nei paraggi?”.
“Sì, due portoni più in là, verso l’incrocio”.
“Posso sedermi qui con Lei?”.
“Certo, prego, aspetti che tolgo la borsa”.
Francesco, intimamente un po’ sorpreso di sé stesso, perché in genere era abbastanza riservato con gli estranei, si accomodò sulla sedia liberata dal suo fardello, facendo contemporaneamente segno verso il bancone per avvertire che aveva, per così dire, cambiato indirizzo.
“E cosa fa di bello?”, chiese Francesco.
“Faccio la domestica a ore presso una famiglia”.
“Ah, e arriva da lontano?”.
“Sì, purtroppo, ci metto un’ora, quando va bene”.
Doveva avere circa la sua età, 35/40 anni, pensava Francesco, non bella, ma graziosa, ti guardava negli occhi mentre parlava, con voce tranquilla e musicale.
“E Lei cosa fa?”, chiese a sua volta la signora.
“Sono un dirigente di un’agenzia pubblicitaria”.
“Quella che sta qui di fronte?”.
“Sì, proprio quella”.
“Deve essere un bel lavoro”.
“A me piace, ma come tutti i lavori, ha i suoi alti e bassi; talvolta certi clienti sono esasperanti, hanno convinzioni o pregiudizi che è arduo superare. E ci tocca fare un tipo di comunicazione di cui non siamo per nulla convinti. Ma, che vuole, il cliente paga e, salvo rari casi, conviene dargli ragione. Di dov’è Lei?”.
“Sono veneta”.
“Ostreghetta!” disse sorridendo Francesco.”Ma veneta di dove?”.
“Portogruaro, la conosce?”.
“No, dov’è?”.
“In provincia di Venezia, fra Venezia e Trieste”.
“Ho capito”. Poi Francesco aggiunse: ”Si rende conto che è un po’ che parliamo ma ancora non sappiamo l’uno il nome dell’altro?”.
“E’ vero, ha ragione. Io mi chiamo Sara”.
“Io Francesco”.
A quel punto, chissà perché, scese un attimo di silenzio.
Francesco pensò che l’aver dato un’identità ai loro visi, aveva da una parte tolto un po’ di mistero a quel semplice incontro, dall’altra creata una piccola barriera ad una conversazione libera e fluida.
“A che ora deve prendere servizio?”, chiese Francesco, per interrompere il silenzio.
“Ora, alle 8 e mezza, sino alle 5 e mezza”.
Francesco, che aveva bevuto il cappuccino e mangiato la sua brioche, s’alzò e disse:
”Anch’io devo andare. Spero di vederLa ancora, Sara”
“E’ facile, mi fermo spesso qui al bar. Arrivederci, allora”, disse sorridendo Sara.
“Arrivederci”disse Francesco, e s’avviò verso l’uscita.

2. Sara

Mentre usciva dal bar, Sara pensava a quel signore gentile con cui aveva scambiato quattro chiacchiere.
Non le era capitato spesso di parlare del più e del meno con una persona così evidentemente più acculturata, più benestante, insomma di una classe sociale ben diversa dalla sua. Tuttavia questa differenza, mentre parlava con Francesco, non l’aveva per nulla avvertita; probabilmente merito della di lui gentilezza e affabilità.
Così pensando, era salita, a piedi, perché non amava gli ascensori, al secondo piano del palazzo poco distante dal bar ed aveva suonato alla porta blindata dell’appartamento dove lavorava.
“Buon giorno”, le disse, aprendo, la signora Marangoni.
“Buon giorno, signora”, rispose Sara, entrando.”Come sta suo marito?”
“Un po’ meglio, grazie, Sara”, rispose la signora, richiudendo la porta.”Anche oggi, però, pasto leggero, riso in bianco e scaloppina, anche per me”.
Dopo essersi cambiata nella cameretta-stireria, comincio la routine quotidiana, fatta di pulizie, far da mangiare e stirare.
Il dottor Marangoni, convalescente da una forte influenza, apparve in tarda mattinata, avvolto nella sua bella vestaglia amaranto, la salutò con la solita cortesia e si mise a leggere il giornale.
La giornata passò rapidamente e, alle 5 e mezza, corse a prendere l’autobus, che l’avrebbe portata alla fermata della metropolitana, che l’avrebbe poi portata alla stazione nella periferia milanese, da dove, con una camminata di circa 15 minuti, sarebbe arrivata al piccolo appartamento in affitto, che occupava ormai da due anni; da quando cioè era venuta a Milano dopo essersi lasciata con Sante, il portogruarese con cui aveva convissuto per oltre quattro anni.
Non era stata fortunata con gli uomini. Il primo l’aveva sposato a vent’anni, com’era abitudine nelle campagne del Veneto orientale, salvo che di solito le giovinette si sposavano così presto perché si ritrovavano incinte, mentre a lei ciò non era capitato. Più che un matrimonio d’amore, era stato un matrimonio per rompere il cerchio dell’abitudine, magari con la speranza di una vita migliore. Ma non era stato così, aveva solo cambiato padrone e, dopo dieci anni, se ne era andata via, lasciando di sasso sia il marito che i suoceri, che avevano contato di aver acquistato, col matrimonio del figlio, un’assistenza assicurata per la loro vecchiaia.
A Portogruaro si guadagnava da vivere facendo l’operaia agricola, un lavoro incominciato da quando aveva dieci anni, aiutando il padre nei campi in mezzadria. Proprio quel lavoro infantile non le aveva permesso di completare la scuola dell’obbligo, in pratica aveva solo la licenza elementare.
Un paio d’anni dopo aver lasciato il marito, s’era messa con Sante, anche lui operaio agricolo nella stessa azienda dove lavorava. Anche se Sante era più gentile del marito, alla fine s’era accorta che in realtà lui faceva vita a sé, con gli amici al bar a bere e a giocare a briscola, mentre lei, a casa, dopo essere rientrata dal lavoro, faceva i mestieri per tenere la casa pulita e far da mangiare a Sante.
Così s’era decisa a fare il grande salto. Se doveva fare la domestica, tanto valeva essere ben retribuita, e a Milano c’era richiesta di personale del Veneto e del Friuli. Con l’aiuto di una lontana cugina, che lavorava a Milano ormai da dieci anni, aveva trovato il lavoro presso la famiglia Marangoni, e la cugina l’aveva ospitata per il tempo necessario a trovarsi un alloggio adatto.
Sempre grazie alla cugina, era entrata in un gruppo di veneti, sbarcati a Milano da parecchio tempo, con cui passava qualche serata e qualche domenica. Ma uomini, niente. Non ne sentiva la mancanza, era ormai una casta single, anche se rimpiangeva di non aver avuto figli; il sesso, sì, non era male, ma doveva ancora capire perché la gente ci dava così tanta importanza, se ne poteva benissimo fare a meno, almeno per un po’.
Circa ogni due mesi, prendeva il treno e tornava a Portogruaro a trovare la sorella ed il fratello, i numerosi zii e zie e cugini e cugine. Un esercito di parenti di vario grado, che volevano sapere tutto di Milano e dei suoi vizi tentacolari. Ma Sara non aveva molto da raccontare, era una persona tranquilla. In realtà erano i portogruaresi a raccontarle le storie più tremende, gli odi e gli amori nati e morti in seno alle grandi famiglie, che un tempo avevano abitato insieme nelle grandi corti delle case coloniche, al servizio dei ricchi proprietari terrieri. Ora ogni famiglia si era costruita, con l’aiuto prezioso di parenti e amici - un aiuto che veniva regolarmente ricambiato - una grande casa per sé e, vicino, le case per i figli. Fra lavoro ufficiale, lavori in nero e pensioni varie, le famiglie se la cavavano egregiamente, nel nord-est che rapidamente s’arricchiva. Era gente laboriosa. Come anche Sara.
Era questa, in breve, la storia che Sara si portava sulle spalle, quella sera, mentre cercava nella borsa la chiave per aprire la porta del suo modesto, ma ben tenuto alloggio nella periferia milanese.

3. Francesco

Aveva detto il vero, Francesco, alla simpatica signora Sara: a lui piaceva il suo lavoro. Il marketing in genere, la comunicazione in particolare, erano strumenti di gestione del mercato arrivati in Italia da pochi decenni, portati da aziende multinazionali o da agenzie pubblicitarie straniere. Lui aveva avuto la fortuna di entrare, appena laureatosi alla famosa Bocconi, in una azienda estera leader nell’uso del marketing dei beni di largo consumo; quel imprinting iniziale lo aveva aiutato a fare carriera, prima in un paio di aziende italiane, poi, per sua scelta, nella agenzia pubblicitaria in cui ancora lavorava come account director, come dire, in italiano, quel dirigente che, con l’ausilio di una serie di collaboratori, doveva permettere alla agenzia di capire al meglio le esigenze di comunicazione dei singoli clienti e farle risolvere nel modo più efficace e rapido possibile, tenendo i contatti con i creativi, con la sezione ricerche di mercato, con i pianificatori dei mezzi pubblicitari e così via. Un lavoro assai delicato, in cui servivano intuizione, sensibilità, capacità di mediazione, competenze specifiche in vari settori del marketing e, prima di tutto, entusiasmo condiviso col cliente per l’obiettivo da raggiungere, cioè il cuore e la mente del potenziale consumatore. Era in fondo un gran gioco di “guardie e ladri”, in cui azienda e agenzia cercavano di trovare la chiave per aprire il portafoglio dei consumatori, e questi di trovare quel prodotto che avrebbe soddisfatto al meglio e col minor spreco di danaro quel bisogno intimo, di cui talvolta nemmeno sospettavano l’esistenza, ma che ricerche sempre più sofisticate avevano fatto emergere agli occhi dei produttori. L’unica cosa che piaceva poco a Francesco era l’uso preponderante, ma purtroppo imprescindibile, di termini specialistici in lingua inglese: target, test, budget, copy, story-board e mille altri. Lo facevano sentire come l’adepto di una setta segreta, dal linguaggio criptato e incomprensibile ai più.
Ma, infine, era ben contento del suo lavoro, guadagnava bene, era stimato e poteva aspettarsi interessanti sviluppi di carriera.
Non poteva dire lo stesso per il resto della sua vita privata.
Era sempre stato un ragazzo timido, al liceo e all’università aveva guardato con invidia i suoi compagni collezionare conquiste femminili, mentre lui si era innamorato di una ragazza che, dopo poco più di un anno, l’aveva lasciato solo con il suo amore ancora vivo ma non più ricambiato. Lui aveva sempre idealizzato la Donna, povera preda delle fameliche voglie dei maschi; non concepiva il fare sesso, per lui esisteva solo il fare l’amore, ma per farlo, bisognava, appunto, essere innamorati e ricambiati Così, dopo quel primo grande, indimenticabile amore, ci mise un bel po’ a trovare un nuovo amore ricambiato: una bella e brava ragazza della media borghesia meneghina, che aveva sull’amore le stesse idee antiquate che aveva lui. Aveva smesso gli studi dopo il liceo ed in pratica aspettava solo d’essere la buona moglie dell’unico uomo della sua vita e la brava madre dei suoi figli.
In realtà, a parte la comunanza di alcuni valori essenziali, Ilaria e Francesco non avevano molto da dirsi; lei non praticava alcuno sport, leggeva riviste femminili, non faceva pazzie per viaggiare e aveva una cerchia di amicizie piuttosto snob e noiose. A metterla in politichese, lei era una rappresentante della destra più conservatrice, mentre Francesco guardava a sinistra, contro i suoi propri interessi e i propri genitori.
Tuttavia si sposarono, si amarono, ebbero una figlia, Patrizia, detta Patty.
Non sapremo mai se un giorno lui l’avrebbe tradita, perché il destino non lo permise. Colpì con imprevista durezza quel fin lì tranquillo focolare domestico, facendo slittare la Mini Cooper di Ilaria, mentre scendeva dalla montagna nella Bergamasca, dove passava l’estate con Patty e dove Francesco la raggiungeva per il weekend. Dopo aver sbattuto di qua e di là della strada, l’auto senza controllo s’era incuneata violentemente nel vano motore di un camion che risaliva in quel preciso momento la stessa montagna. Ilaria era spirata sul colpo, Patty il giorno dopo, all’ospedale.
Francesco rimase come inebetito per settimane. Tutto l’ordine della sua vita era stato sconvolto, il suo totale abbandonarsi ai sentimenti d’amore verso Ilaria e Patty - oh, dolce, piccola Patty che, come arrivava a casa, gli correva incontro gridando: papi, papi - si era trasformato in lama rovente, a squarciargli senza sosta lo stomaco, a mozzargli il respiro, a ronzargli continuamente in testa, ad oscuragli la vista, a disseccargli la voce. Parenti ed amici s’erano affannati intorno a lui, dapprima per consolarlo, poi per stimolarlo a guardare di nuovo alla vita che continuava. Ma ad aiutarlo davvero fu principalmente il lavoro. In agenzia, dove tornò una settimana dopo l’incidente, lo accolsero con un grande abbraccio collettivo, ma subito dopo cominciarono a trattarlo come se nulla fosse accaduto, a chiamarlo di qua e di là nelle varie riunioni; anche se dapprima era presente col corpo ma assente con il cervello, dopo pochi giorni si ritrovò a dare ogni tanto il suo parere, ad accettare il contraddittorio e da lì prese avvio la convalescenza. Anche sua sorella Paola fu efficace nel riportarlo in carreggiata: nella prima settimana lo ospitò a casa sua, poi lo fece tornare nel suo appartamento ma per un paio di settimane prese lei il controllo della casa, dando ordini alla domestica, pagando i conti, facendo la spesa. Poi lo lasciò solo, pur vegliando da lontano, con frequenti telefonate alla fidata domestica.
Francesco si riprese, anche se era palese che qualcosa nel suo sguardo era mutato, v’era un certo che di malinconico, d’incupito, anche il sorriso era meno marcato, la postura meno elastica.
Aveva 35 anni ed era di nuovo solo. Peggio che solo, perché aveva ormai anche timore ad abbandonarsi di nuovo al sentimento, perché già due volte aveva provato quale dolore esso può arrecare quando, per qualche motivo, viene tradito, cancellato, distrutto. Piangeva Ilaria, ma soprattutto non si dava pace per Patty, così ridente, fresca, innocente, un fiore che si stava aprendo con lo scintillio della rugiada sui petali delicati.
Ora, mentre in tarda serata apriva la porta del suo appartamento, dopo la riuscita presentazione delle proposte di campagna stampa ai nuovi clienti, Francesco aveva già compiuto 40 anni, da cinque era solo con sé stesso, non aveva più abbracciato una donna, tanto che ogni tanto si chiedeva se sarebbe ancora stato capace di fare l’amore. Di donne, non fosse che per lavoro, ne incontrava tante, quasi sempre belle, eleganti, intelligenti, ma anche aggressive, ben consce del proprio valore, poco disponibili all’amore, ma molto al sesso, proprio il contrario delle sue convinzioni. Donne piacevoli con cui passare una giornata con gli amici comuni o una serata al teatro o al concerto, ma che presto diventavano impegnative, competitive, indurivano i tratti del loro viso e restringevano le palpebre dei loro begl’occhi. A quel punto lui si stancava e se ne tornava a casa, ai suoi libri e alla sua musica classica, che sempre gli davano serenità e pace.
Anche quella sera trovò in frigorifero il piatto di salumi misti che aveva chiesto alla domestica di preparare e che gustò, accompagnandolo con un bicchiere di ottimo vino rosso leggero. Poi si sedette sulla sua poltrona, dopo aver messo un disco di Mozart, l’amata sinfonia Jupiter, aprì il libro che stava leggendo, “Incontri con uomini straordinari” di tale Gurdjieff, che gli era stato consigliato da un collega d’ufficio e che gli piaceva davvero molto. Così, in pochi minuti, si ritrovò ben lontano dalle pareti domestiche, a vagare nelle lande terrificanti del deserto del Gobi.
 
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lagrandefame
view post Posted on 27/1/2012, 14:58




Davvero interessante il tuo illustrare due personaggi così semplici e modesti, eppure complessi nei loro dolori e nelle proprie sventure, elementi che li accomuna. Lo vedo come uno spunto per un romanzo, o per un racconto lungo. Ma va bene anche così.
 
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1 replies since 24/1/2012, 15:13   52 views
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