FAVOLA DI UN ALCOLISTA, CAPITOLO 3

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lagrandefame
view post Posted on 24/9/2011, 15:00





Una mattina la sveglia non riuscì a destarmi, non la sentii. Mi ero messo a letto soltanto tre ore prima e ora ero immerso nel sonno pesante degli ubriachi. Ma mi svegliò Adriana, dolcemente, coi suoi delicati baci sulla mia guancia destra, già mezzo solcata da acide rughe, e con le sue carezze sulla mia spalla. Aprii gli occhi, sentii il suo calore sul mio corpo. Lei mi disse in un orecchio che era ora di alzarmi, che dovevo andare al grande magazzino. Mi girai e la guardai, stanco e distrutto. Lei mi sorrise, ma fu un sorriso rapido che poi mutò in una triste smorfia. Dovette aver capito i miei occhi. Sospirò piano, malinconicamente, come sconfitta. Nei suoi occhi non scorsi più la pace di tempo prima, scorsi invece riflessa l'angoscia e l'alcolica solitudine dei miei occhi. Fu frustrante. Mi accorsi che l'avevo persa, mi accorsi che la sua forza su di me aveva perso forza. Tornai a girarmi dall'altra parte, mentre lei sgusciò via gravemente dalle lenzuola per andare non ricordo dove. Piansi qualche silenziosa lacrima, ancora ubriaco, e mi riaddormentai quasi subito. Non andai a lavorare, non risposi alle chiamate del mio capo reparto. Non sarei più andato a lavorare, né al grande magazzino né in nessun altro posto.
Passai quell'intera giornata chiuso in casa a fare fuori le ultime scorte di alcolici che avevo gelosamente e stupidamente custodito nel mio armadio, tra i vestiti, per timore che Adriana le scoprisse e le gettasse nel cesso, cosa che comunque non aveva mai fatto, né prima né dopo. Adriana aveva sempre assistito alle mie sbronze, cercando di bere anch'ella il più possibile e parlando molto, per non lasciarmi crollare nelle improvvise malinconie. Mi faceva ascoltare la sua musica preferita, mi leggeva le notizie dai quotidiani, mi parlava di qualche nuovo scrittore, di politica, mi proponeva progetti, soprattutto cercava di stimolarmi con nuovi lavori che avrei dovuto fare. Un giorno mi disse che secondo lei avrei dovuto imparare a suonare un altro strumento, per intensificare il mio lavoro, per stuzzicare continuamente la mia creatività, per dare una svolta decisa alla mia futura brillante carriera di musicista, non potevo mica continuare a raccattare quattro centesimi nei soliti club, diceva. Ero un genio, sosteneva. Mi diceva che non avrei avuto problemi a suonare un altro strumento, ero un uomo talentuoso ed estroso come pochi, il mio orecchio per la musica era un bene unico e prezioso. E aveva ragione, non avrei avuto problemi ad ampliare i miei cosiddetti orizzonti, sapevo già strimpellare il piano, sapevo pizzicare il contrabbasso, sapevo suonare benissimo la chitarra, sapevo soffiare qualcosa nella tromba. Ma tutto era andato a puttane troppo presto.
Quando Adriana mi diceva tutte quelle cose io l'ascoltavo guardandola fisso negli occhi, continuamente alla ricerca della pace di cui avevo bisogno più dell'alcol.
Ma ora quella pace era improvvisamente scivolata via dagli occhi di lei, questo ovviamente per causa mia, lei non c'entrava nulla. Non ero stato capace di nutrire la creatura più preziosa che avevo nella mia anima eternamente insofferente. E non mi sentii capace di affrontare il dolore più atroce della mia vita. Quel giorno evitai le sofferenze con le mie solite bottiglie, e quando queste finirono, uscii come impazzito a comprarne delle altre con i pochi soldi che mi erano rimasti. Bevvi tutto il giorno sprofondato in poltrona ad ascoltare il piano di Michel Petrucciani, cercando di riacciuffare la sensibilità perduta negligentemente per strada e nell'alcol, ma non vi riuscii. La musica cominciava a diventarmi addirittura fredda, cosa mostruosa per un musicista e per un artista in generale. Chi diviene indifferente alla musica non è più uomo.

Freddo e strafottente, cinico e stronzo, insensibile e immaturo, sprecone e irresponsabile. Ecco cos'ero diventato negli ultimi tempi. Per l'abuso di alcol? Per la mia dipendenza? Io credo, ora, in questo preciso istante, che non ci si trasforma di punto in bianco in una sconcertante parvenza d'uomo solo perché si fa uso spropositato di qualche sostanza di merda. Io credo che forse sono diventato quello che potenzialmente, sin da fanciullo, dovevo essere. L'alcol è stato solo un mezzo immediato, purtroppo, per facilitare la fuoriuscita di tutto lo schifo che forse da sempre ho avuto in corpo e nella testa, per ingigantire il mio morboso legame con la malinconia e la solitudine, per inasprire la mia illusa dolcezza. La musica e Adriana si sono misericordiosamente posti tra me e la mia merda latente, hanno disperatamente cercato di migliorarmi, di salvarmi, e non ci sono riusciti. Forse la mia psiche aveva già deciso da molto tempo che l'alcol sarebbe stata la mia definitiva forma d'espressione.
Quando quella sera Adriana rientrò, io ero chino sulla tazza del cesso a vomitare. Con la consueta calma che la contraddistingueva, Adriana mi tirò su e m'infilò la testa sotto la doccia dopodiché mi mise a sedere in cucina, attorno al tavolo. Mi mise davanti una bottiglia d'acqua e mi disse dolcemente di bere, ma io rifiutai, m'alzai, aprii il frigorifero, presi una birra, la stappai e la scolai quasi tutto d'un sorso. Per la prima volta Adriana mi guardò con disprezzo, seppur velato da un pizzico di tristezza e compassione, credo. Si diresse ai fornelli a cucinare qualcosa e attaccò a parlare, ma diversamente dal solito, d'altronde dovevo aspettarmelo, credo che da molto tempo Adriana soffrisse in silenzio. E poi penso che i racconti di Giulio sul mio conto l'avessero preoccupata ulteriormente.
- La vuoi sapere una cosa, Nando?
- E' importante?
- Stai crollando miseramente nel baratro.
- Che ti salta in mente?
- E sai cos'è la cosa che più m'atterrisce? Che tu non faccia assolutamente nulla per risollevarti, e non perché non ne sei capace, ma perché non ne hai nessuna voglia. Non lo so, forse provi un gusto morboso a sguazzare nella merda.
- Sei impazzita?
- Sei un masochista, sei disperatamente alla ricerca della sofferenza e dell'abbrutimento.
- Ti faccio forse del male?
- Sì! E non soltanto a me, ma anche a tutti quelli che ti sono vicini e che ti sono stati vicini. Provi forse piacere in questo?
- Ora stai esagerando.
- Come può essere? Come può accadere di buttare nel cesso tutte le fortune di cui si dispone? Me lo spieghi? Come si fa?
- Io non sto buttando proprio niente nel cesso.
- Sì che lo stai facendo, e lo sai benissimo. E' questo che vuoi? E' questo che hai sempre voluto? In passato sei stato solo un bluff?
- Certo che no!
Ma forse aveva ragione.
- Io non riesco proprio a spiegarmi un cambiamento simile. Hai ingannato tutti e hai ingannato anche te stesso. Io mi chiedo che cosa hai cercato veramente in me. Perché mi hai scelta? Per salvarti perché conoscevi già i tuoi malesseri? Può darsi. Ma dopo? Hai voluto compagnia nel tuo predestinato declino?
- Non dire stupidaggini simili, Adriana, ti prego.
- No, perché se è così, che uomo di merda sei?
- Mi vuoi mortificare? Frustrare?
- Forse è colpa dell'alcol. E' colpa dell'alcol?
- Dell'alcol?
- Può essere, indubbiamente il tuo abuso di quella merda ha complicato ogni cosa col trascorrere del tempo, ma tu sei un uomo consapevole delle tue scelte, e bere è una tua scelta. Addirittura mirata, oserei dire.
Ovviamente mi opposi, ma credo che avesse ragione.
Mentre Adriana parlava e io fornivo le mie deboli risposte, seguitavo a tracannare le ultime birre rimaste, accendendo sigarette, ruttando e grugnendo come un porco. Immagino le stessi facendo alquanto schifo.
- Non mi parli mai di te. Che ci sto a fare io? A che cosa ti servo?
Già, a cosa serviva realmente la pace dei suoi occhi che per molto tempo m'aveva placato le intime sofferenze?
Poi, improvvisamente, attaccò a chiedermi della mia famiglia.
- Non me ne parli mai. Perché? Eppure ti ho chiesto di farlo più di una volta.
- Perché non ne ho voglia.
- Che cazzo significa che non ne hai voglia? Se non parli con me, se non ti sfoghi, caro mio, significa che la tua vita è inutile e tutto ciò che ti sta intorno per te è inutile, è senza vita, compresa me. E significa anche che sarai sempre solo. Tutte le donne che ti sei scopato non hanno e non avranno nessun significato. E' atroce.
- Non ne vale la pena parlarne. Non rompere.
Non ho mai parlato della mia famiglia con nessuno, e tantomeno con Adriana. Era stato sempre un tema che mi toccava dolorosamente i nervi. Non avevo mai avuto alcuna voglia di parlarne.
Da quando mi ero trasferito in città ero andato a trovare i miei soltanto tre o quattro volte, non di più, e ogni volta che c'ero andato avevo poi sempre avuto molta fretta di ripartire, invaso da un irrefrenabile nervosismo. La loro situazione di povertà m'aveva sempre angosciato, esasperato. Non sopportavo in alcun modo vederli marcire miseramente in quella casa rattoppata e ammuffita. Mia madre, ancora viva da qualche parte, ha vissuto un'intera vita a cucinare e a riassettare camere, un'intera vita dedicata alle faccende domestiche, sempre in silenzio e sempre triste. Mi dava ai nervi guardarla. Non diceva mai nulla, mai un abbraccio, una carezza, un bacio, neanche da bambino. Non è una mamma, non era una mamma, era una malinconica domestica fuori dal mondo e fuori dal tempo, sempre.
Mio padre, anch'egli forse ancora in vita, ha vissuto collezionando debiti per quieto vivere nei confronti di un mio fratello nato con le cervella malate, o cresciuto con le cervella malate, che incuteva terrore dentro casa con le violenze, le urla, le frasi assassine e assurde. Mio padre si rincoglionì già all'età di quarant'anni, dopodiché ha creduto bene continuare a vivere grazie al silenzio e alle fiction in tivvù.
La miseria dei miei è causata dalle loro stesse stronzate.
Dei miei fratelli, in conclusione, a stento ormai conosco i nomi. Mai avuto rapporti, mai una chiacchierata confidenziale, non un ricordo particolare, freddezza disumana, incomunicabilità agghiacciante, indifferenza spaventosa. Della loro vita non so nulla, né loro sanno della mia, presumo, visto che ancora adesso non si sono fatti sentire.
Tutto qui. Basta. Stop. Non ne vale la pena approfondire.
Adriana provò a insistere facendomi domande sulla mia famiglia, forse per scuotermi, per farmi aprire, magari per farmi esplodere, perché probabilmente aveva capito la sorgente da cui stillavano i miei malesseri, ma ormai era troppo tardi, secondo me. Lei, per la prima volta da quando la conoscevo, s'inviperì, prese una bottiglia di birra vuota e me la lanciò contro, colpendomi a una spalla. Non mi feci nulla, non sentii alcun dolore, ma mi esasperai oltre misura e, anche in quel caso per la prima volta, l'afferrai e la schiaffeggiai violentemente fino a farle sgorgare il sangue dalle labbra e dal naso. Cadde a terra, piangendo.
- Sei un brutto figlio di puttana!
Presi la sua borsa, ne cacciai qualche soldo e uscii per continuare a bere in completa solitudine, come ormai facevo da molto tempo. Non desideravo più compagnia nelle mie bevute. Non offrivo più a nessuno, anzi pretendevo che qualcuno mi desse da bere, aggressivamente. Ero ormai un fottutissimo bastardo figlio di puttana maledetto. Una gran merda d'uomo.

Trascorrevano i mesi e la mia vita s'inzuppava nell'alcol come i biscotti nel caffellatte, il mio umore era una trottola che girava impazzita intorno alle bottiglie, la mia malinconia serviva a frenare quella trottola e a farmi stare seduto sulla tazza del cesso intere notti a piangere cercando una via d'uscita che però non avesse alcun legame con l'alcol, perché per me l'alcol non rappresentava mai un problema. Poi c'era la solitudine, l'avevo sempre sentita, a volte anche accanto ad Adriana. Quella solitudine la sentivo come una scimmia sulla mia spalla, cara e fottuta amica della mia dipendenza dall'alcol che invece riposava sull'altra spalla. Due amici al prezzo di uno.
Ormai suonavo sì e no un paio di volte al mese, senza mai mettere su un repertorio decente, servendomi di un giovanissimo pianista che inspiegabilmente mi adorava, offrendomi continuamente da bere, venendomi sempre appresso, senza forse accorgersi che spesso lo trattavo come un cane bavoso, quando invece ero io un cane bavoso.
Nella maggior parte dei casi i gestori dei club non mi rinnovavano l'ingaggio, mi sbattevano in faccia quattro soldi e mi mandavano a cacare nell'aria della notte con un bicchiere in mano. Non ero più seguito, non portavo più clienti a consumare nei locali, tutti i miei vecchi amici col tempo m'avevano abbandonato e addirittura boicottato. Spesso suonavano con le loro band le stesse sere che suonavo io. I loro locali erano pieni, quasi come i vecchi tempi, mentre i miei erano tristemente semi vuoti.
Ma quei soldi mi servivano, non volevo ancora andare a scippare vecchiette per strada per procurarmi soldi per l'alcol. Il mio piccolo amico pianista, ventiduenne, a volte mi prestava del denaro. Commovente.
Trascorrevo le giornate quasi sempre da solo, gironzolando per la città come un ebete, alla ricerca di niente. I vecchi conoscenti scostavano gli occhi, e così anche le ragazze che un tempo mi sbattevo soltanto perché aprivo la bocca. La mia vita sessuale stava degenerando. Fare l'amore con Adriana era diventata una tortura. Non ce la facevo, andavo fino in fondo ma ci arrivavo con la dichiarazione di morte negli occhi e nel petto. Mentre lo facevo credevo sempre di essere improvvisamente trafitto da un infarto, le mie smorfie erano di dolore, così anche i gemiti. Un disastro. E inevitabilmente la frequenza calò mostruosamente. Ma nonostante ciò feci quello che non avrei mai voluto fare, almeno in quel periodo nefasto: misi incinta Adriana.
Quando lei m'informò m'innervosii. Fui spietato.
- Puoi fare quello che ti pare, non mi riguarda. Puoi tranquillamente abortire, puoi non farlo, non m'interessa. Non voglio essere padre e non voglio essere marito. Se tu vuoi essere madre, la cosa non mi tocca.
Questo dissi ad Adriana. Lei mi ascoltò disgustata, senza dirmi una sola parola. Certamente non s'aspettava che io potessi aiutarla in qualche modo, ma forse non s'aspettava nemmeno tanta bastardaggine e tanta crudeltà d'animo e tanto egoismo nero. In fondo forse mi voleva ancora bene, e forse credeva che in fondo gliene volessi anch'io. Le volevo bene? Può darsi, ma contava molto meno di una buona bottiglia di vodka.

La mattina seguente Adriana non lasciò più tracce di sé in casa mia, o meglio, ne lasciò una, una bella lettera breve in cui mi smerdava come si può smerdare Hitler e tutti i fascisti di questo mondo, mi strapazzò come si strapazza un criminale di guerra in un tribunale speciale.
"Se un giorno dovessi essere accusato di qualcosa, anche di qualcosa che non hai commesso, io testimonierò contro di te", concludeva la lettera. La stracciai e bevvi la prima bottiglia della giornata. Bè, che cazzo dovevo aspettarmi? Un ricco premio? Se ne era logicamente andata, sarebbe stata una pazza se non lo avesse fatto. Che strano però, pensai ubriaco, se ne era andata con in corpo una creatura che era anche mia. Chissà che cosa ne avrebbe fatto? E se lo avesse messo al mondo? Come sarebbe cresciuto? Avrebbe avuto il desiderio di vedere suo padre? E sua madre glielo avrebbe realizzato questo desiderio?
Ma più di tutto m'interessava il fatto che senza Adriana non potevo più permettermi di pagare l'affitto. E così, dopo due mesi che Adriana se ne era andata, fui costretto ad abbandonare il mio amato monolocale, sfrattato e cacciato a calci in culo, soprattutto dopo che la padrona di casa vide in che stato lo avevo trasformato il suo monolocale. Sembrava più un deposito di bottiglie vuote che una dimora per esseri umani.
Mi trasferii dal mio piccolo pianista, mi trasferii da lui a rendergli la vita insopportabile. Povero piccolo, teneramente indifeso alle prese con un mostro pieno d'alcol e pieno di merda che usciva fuori ogni giorno ormai senza controllo. Bevevo tutto quello che comprava, anche se non era per me, poi gli chiedevo aggressivamente di andare a comprare dell'altro alcol. Non avevo nemmeno la decenza di andarci io, me ne restavo a casa sua ad aspettarlo. Ero peggio di un eroinomane, almeno loro si sbattono l'anima in giro per andarsi a cercare la droga, giorno e notte, per tutta la città, scampando a mille pericoli. Io invece avevo scelto la dipendenza più comoda, la mia droga si trova ovunque e puoi mandare anche un cane a procurartela. Da uomo brillante e intraprendente quale ero stato fino a pochissimo tempo prima, mi ero trasformato in una ameba melmosa e ammuffita.

Trascorse un altro anno e venni a sapere dal piccolo pianista che Adriana non aveva abortito, aveva deciso di tenersi il moccioso e lo aveva messo al mondo. Gli chiesi se l'avesse vista, lui mi rispose che l'aveva sentita e che mi mandava a dire che le avevo rovinato la vita e che l'avrei pagata cara, che tutti i miei vecchi amici m'avrebbero dato addosso per tutto il male che avevo fatto loro e a lei, per tutto il mio egoismo e la mia irresponsabilità, per il fatto di aver goduto sadicamente nel trascinare gli altri con me nella merda. Brutta puttana e brutti stronzi, pensai.
Il piccolo pianista mi riferì tutto quel bel rosario con insolita freddezza e forse con un pizzico di disprezzo. Nei miei confronti, si capisce. Capii che da lì a poco non avrei potuto contare nemmeno più su di lui.
Spesso mi arrivavano lettere e messaggi di vecchi amici, decisi fermamente a rovinarmi l'umore per il resto della vita, a farmi sentire in colpa fino al giorno dell'ultimo addio. Io penso che ce l'avessero con me soprattutto perché senza il mio vecchio talento non avevano grosse opportunità di fare qualcosa di buono nella musica.
Quando mi capitava d'incontrare qualche vecchio amico mi sentivo rimproverare, ad alta voce e per strada, che avevo spietatamente messo Adriana nella peggiore delle vite. Mi dicevano che soffriva come una cagna, segnata dai miei crudeli comportamenti senza cuore. Mi dicevano che doveva fare miracoli per tirare su il bambino. Mi dicevano che era depressa. Mi dicevano che mi odiava e che urlava il suo odio a tutti quelli che, mossi da pietà, l'andavano a trovare.
Infine concludevano i loro solenni cazziatoni dandomi dell'uomo di merda, insensibile a tutto, anche alla miseria dei miei genitori abbandonati in un letamaio di casa in un piccolo paese.
Io li ascoltavo con un bruttissimo sorriso che voleva significare difesa e orgoglio. Ogni tanto rispondevo che non avevo colpe, che anzi le avevano loro, che m'avevano mollato nel momento di crisi, che non erano veri amici, e che Adriana era una delle tante stronze che aveva voluto soltanto spassarsela un po’ e che ora si divertiva a smerdarmi perché da me non aveva visto un centesimo come sicuramente si aspettava. A volte ero così schifoso da arrivare addirittura ad asserire che il bambino non era mio e accusavo ovviamente Adriana di essere un gran puttanone che aveva deciso di rovinarmi la vita, per sollazzo.
Insomma, rispondevo con una montagna di assurdità, sfoderando il tipico delirio dell'alcolista, ambiguo, ottusamente e pateticamente difensivo e aggressivo nello stesso tempo. Ero evidentemente colpevole di tutto, soprattutto della mia rovina, ma in quel periodo non sapevo cosa fosse una colpa, non volevo saperlo, la responsabilità non m'apparteneva, perché la mia vita era fatta di una cosa più seria di tutto il resto: l'alcol. Avere una bottiglia di rum era molto più importante che avere un lavoro e un buon rapporto con i miei simili. Una sbronza valeva molto di più di un affetto. Un bicchiere contava molto più che una sana e genuina chiacchierata con un buon amico. Anche il sesso ormai contava meno di una bevuta, anche perché non ero più in grado di sedurre nessuno, nemmeno una pecora immalinconita o una ottantenne arrapata in cerca dell'ultimo soffio di vita.
L'alcol, consumato gradualmente e di tanto in tanto, può portare sicurezza o intraprendenza o loquacità o allegria o malinconia o anche aggressività che però poi sfuma subito dopo la sbronza. L'alcol, consumato con nauseante costanza tutti i giorni ripetutamente, porta soltanto a isolarsi dalla Terra, a vivere senza contare ciò che sta attorno, a distruggere tutto quello che non sta bene in un preciso istante, a distruggere pian piano tutto il bello che si è creato in passato, ad autodistruggersi. La dipendenza porta a essere l'ultimo uomo di questa terra, il più sporco, il più squallido, il più stronzo, il più egoista, il più nichilista, la più merda di tutta l'altra merda. L'alcol ammazza senza concedere l'opportunità di lasciare qualcosa di buono e di decente al mondo; sotterra con gli insulti di tutti coloro da cui ci si è fatti odiare; manda nel nulla eterno a calci nel culo senza nemmeno dare la speranza che possa esistere un aldilà. E non importa se nella vita si è bevuto come un cinghiale perché ci hanno fatto del male o perché si è morti di fame o perché la tua famiglia ci ha stuprato o perché la nostra famiglia è stata massacrata o perché non si è mai trovato lavoro. Nemmeno per tutti costoro c'è pietà, forse, perché l'alcol ci rende colpevoli di non voler pensare a risollevare le nostre sorti, infastidendo la vita degli altri.
Figuriamoci se può esserci pietà per me, per quello che ho fatto.

Non ricordo quanto tempo passò ancora, ma ricordo senz'altro il giorno in cui il piccolo pianista, esasperato, mi cacciò di casa.
- Nando, ho preso una decisione.
- Ah sì? E quale?
- Te ne devi andare da qui, subito.
- Non mi prendere per il culo.
- Non ti prendo per il culo, prendi la tua roba e sparisci.
- Che cazzo stai dicendo?
- Mi hai bevuto tutti i soldi, mi hai invaso gli spazi, mi hai reso la casa squallida e la mia vita insopportabile. Cristo, mi hai anche intaccato il carattere. Non voglio impazzire, quindi, caro amico, vattene a cacare da qualche altra parte.
- Ma bravo! Sei un ingrato! Sei un piccolo coglione che non ha imparato la mia lezione di vita!
- Sei ubriaco Nando, sta' zitto.
- Zitto tu, stronzo! Lo sai che fine farai senza di me? Lo sai? Non suonerai più da nessuna parte. Non suonerai mai più nella tua vita, non ti chiamerà più nessuno perché hai cacciato di casa il più grande di tutti, il migliore, colui che poteva svoltare la tua esistenza di merda.
- Vattene, prima che ti ammazzi.
Vomitai il solito delirio inaccettabile per qualunque essere normale, o anche quasi normale. Io non ero per niente normale.
Trascorsi una settimana a vivere per strada, cercando in qualche modo di intrufolarmi in una piccola cerchia di barboni che s'accampavano sempre alle spalle della stazione centrale, tra vomito, sputi, merda, piscio e l'allucinante indifferenza dei passanti. Non riuscii simpatico nemmeno a quella combriccola di straccioni. Qualcuno di loro mi conosceva e quindi mi evitava, nascondendo sotto il culo il cartone di vino che aveva. Io, durante la notte, rubavo il vino e mi andavo a cacciare in qualche altro angolo sperduto della città, rischiando sempre di essere pestato da qualche psicopatico estremista più bruciato di me. Fortunatamente qualche buon cristo che vagamente si ricordava di me mi chiedeva, non senza stupore, se gli suonavo qualcosa con il mio sax. Io, rugoso e con gli occhi che guardavano soltanto la mia dipendenza, chiedevo prima qualche soldo, poi attaccavo a suonare, male, sbavando malattie nel bocchino dello strumento.
Feci il barbone musicista per una settimana, appunto, dopodiché, merda quale ormai ero, mi convinsi che non ero "portato" per vivere per strada. Perché ovviamente non avevo nemmeno più le palle di allacciarmi le scarpe. Ero l'ultimo degli ultimi.
Vendetti il mio caro vecchio sax di cui però negli ultimi tempi non mi era importato quasi più niente, non suonavo nemmeno più granché bene, il peggio che potessi aspettarmi, il segno inequivocabile di una vergognosa sconfitta e della totale autodistruzione. Perché autodistruzione non significa soltanto spappolarsi senza riguardo il fegato e tutto il resto del corpo, significa anche e soprattutto annientarsi intellettualmente, disintegrare la propria mente, stroncare la propria creatività, ottenebrarsi il cervello, rimbecillirsi fino alla demenza. Crepare senza dignità.
Con i soldi del sax andai alla stazione, acquistai un biglietto di sola andata per una cittadina del nord e partii. Sporco puzzolente e brutto.


 
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