FAVOLA DI UN ALCOLISTA, CAPITOLO 2

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lagrandefame
view post Posted on 24/9/2011, 14:50






Nel periodo critico gli alcolisti sono molto simili agli eroinomani in quanto a consumo della sostanza e a comportamento, ma in quanto a rendersi conto di essere diventati dipendenti l'alcolista va più a rilento, il processo è più lungo, anche per un ambiguo gioco psicologico. L'alcolista è più testardo, riconosce molto tardi di essere diventato dipendente. Io c'ho impiegato più di un anno (dopo comunque già diversi anni di contributi alle spalle) per rendermi perfettamente conto di essere ormai nella fase quasi critica. Ma non m'importava più di tanto, nessuno mi costringeva ad attaccarmi alla bottiglia, bere era una mia scelta. Autodistruzione? Può darsi, ma non ci pensavo molto, e quando ci pensavo sorridevo ironicamente.
Ricordo che il principio della mia seria dipendenza cominciò a preoccupare qualcuno, in particolar modo Leo, un amico che al tempo andavo a trovare spesso; era un grande appassionato di musica. Una sera ero a casa sua, stavamo in salotto ad ascoltare la sua musica e a parlare non ricordo di cosa. La sala era illuminata fiocamente da un piccolo lume e noi sedevamo in poltrona a bere vino. Ricordo che stappai l'ennesima bottiglia, riempii il mio bicchiere poi anche il suo ma lui fece un gesto come per dire basta. Avevamo bevuto già parecchio prima e lui non ne poteva più. Io invece potevo continuare ancora tutta la notte, cosa che puntualmente poi feci. Quando Leo rifiutò il bicchiere, io prima bevvi tutto d'un sorso il suo poi, più cautamente, attaccai il mio. Leo mi guardò con una strana smorfia sulle labbra. Me ne accorsi. Lo guardai a mia volta, interrogativamente.
- Senti Nando, non credi di iniziare a esagerare?
- In che cosa?
- Nel bere.
Silenzio.
- Allora, Nando?
Silenzio.
- Te lo dico io. Stai esagerando. Ormai in tanti se ne sono accorti e se lo vuoi sapere mi chiedono spesso che fine hai intenzione di fare. Ormai ti vediamo sempre con un cazzo di bicchiere in mano, fai tutto con un cazzo di bicchiere in mano, anche andare al cesso. Non è una visione proprio piacevole, sai? A volte è nauseante. E poi che vuoi fare? Inguaiarti il fegato e il cervello? Vuoi rovinarti il carattere? Lo so che forse non te ne sbatte una mazza, ma ti dico che se continui così manderai a puttane la tua futura carriera di musicista, e ancor peggio finirai per seppellire la tua passione per la musica. Hai capito?
Non risposi, rimasi con lo sguardo abbassato, sorseggiando lentamente. Poi alzai lo sguardo, accesi una sigaretta, presi la bottiglia dal tavolino, mi alzai e lo salutai. Lui restò seduto, inviperito.
- Vaffanculo stronzo, non vuoi ascoltare gli altri! Stai diventando un alcolizzato di merda, lo sai?
Trascorsi tutta la notte seduto sulla tazza del cesso con una bottiglia in mano a pensare, attaccato dalla malinconia. Andai a dormire alle sei di mattina maledicendo il mio amico Leo, chiedendomi come diavolo facesse lui a combattere contro i suoi mali, contro i suoi mostri. La mattina dopo andai al lavoro con un insolito terribile mal di testa e un ancora più insolito malumore addosso.

Nonostante i primi campanelli d'allarme la mia vita procedeva ancora con un certo successo. Scopavo senza dover andare a puttane, continuavo a conoscere gente interessante, la mia band faceva ancora furore in molti club della città, forse c'era un disco in arrivo. Il lavoro al grande magazzino procedeva senza tanti intoppi e non avevo intenzione di lasciarlo perché continuavo a trovare molto stimolante lavorare coi libri, e avrei continuato a fare quel lavoro anche se dall'oggi al domani fossi diventato milionario. Ma soprattutto bevevo con molto gusto, non mi stancavo mai. Non sono uno stupido e specialmente non lo ero allora, sapevo benissimo che qualcosa principiava a non andare proprio per il verso giusto, v'era indubbiamente qualcosa che prese a pesarmi addosso gradualmente, progressivamente. Ero sempre un uomo brillante, ma non riuscivo più ad esserlo durante tutto l'arco della giornata; vi erano momenti in cui chiudevo bottega e mi ritiravo in un angolo, continuando ovviamente a bere. Verso la fine dei nostri concerti, invece di fare smorfie strane al pubblico e di comportarmi da istrione, cominciavo a girarmi placidamente verso i miei musicisti e li guardavo assorto e li ascoltavo suonare, come se io non ci fossi. Li incoraggiavo spesso ad allungare i loro assolo.
Quando m'invitavano ai festini dopo un po’ prendevo il mio vodka lemon e andavo ad accucciarmi in qualche angolo, accasciandomi su una sedia. Ricordo che qualcuno, chi già sapeva della mia dipendenza, mi si avvicinava e mi chiedeva se fosse tutto a posto. Rispondevo sempre che era tutto a posto, ero solo molto stanco.
In effetti in quel periodo, quando avevo quasi ventinove anni, avvertivo spesso una grande stanchezza, soprattutto quando la sbronza si dissolveva dopo i concerti e le lunghe nottate passate in giro per la città. Ma non era soltanto stanchezza. Sapevo che la mia maschera di malinconia si faceva sempre più evidente. Quando andavo a sedermi negli angoli durante gli ultimi istanti delle feste, sentivo la solitudine assalirmi come i primi sintomi di una febbre. Nonostante durante tutto il giorno avessi a che fare con una quantità enorme di gente, sentivo di non avere vicino una persona veramente cara, soprattutto notavo addosso la carenza di una persona con cui condividere lunghi attimi di riposante silenzio. Tutti tipi interessanti, senza dubbio, ma tutti senza quel senso di pace negli occhi che stavo cercando ormai da diversi anni, quel senso di pace che mi avrebbe completato e riempito più di tutte le altre cose.

C'era Adriana, una ragazza che avevo conosciuto circa un mese prima. C'eravamo trovati insieme già qualche volta, senza andare a letto, e mi era sembrato che lei fosse in grado di trasmettermi un'insolita serenità, e soprattutto mi sembrava che con lei riuscivo incredibilmente a stare in silenzio e a trovarmi perfettamente a mio agio.
Cominciai ad accorgermi che Adriana era l'unica persona a voler trascorrere del tempo con me nei momenti in cui mi appartavo e mettevo via tutta la mia brillantezza e il mio chiassoso estro. Mi si avvicinava e mi guardava per un po’, sorridendo. Io la contemplavo, sorseggiando la mia buona bevanda. Era una bellissima sorpresa scoprire di non avere la necessità di aprire bocca e di stupire con i miei talentuosi giochetti. Restavo in silenzio. Poi cominciava a parlare lei, pacatamente e piacevolmente. Allora sentivo la pace venirmi dentro.
Capii che piacevo ad Adriana non soltanto per la mia vita da artista in pubblico, ma anche per il mio piccolo essere intimo appartato in un angolo. A bere, naturalmente.
Fu inevitabile innamorarmi di Adriana. E Adriana s'innamorò di me, o forse, nel suo essere così placido e armonioso, era contenta che io mi fossi innamorato di lei.
Dopo tre mesi che ci frequentammo nelle feste e nelle serate nei club, le proposi di venire a stabilirsi da me, nel mio piccolo ma confortevole monolocale. Lei accettò e volle insistere nel voler dividere l'affitto. Non dissi di no. Ultimamente le paghe nei club cominciavano a diminuire vistosamente a causa del troppo alcol che io e la band pretendevamo di avere prima, durante e dopo le esibizioni. Più io che la mia band, per la verità.
Qualche piccolo malumore iniziò a destarsi.

Passò un altro anno e la stanchezza fisica cominciò a venire fuori con maggior veemenza. Me ne rendevo conto soprattutto la mattina quando dovevo alzarmi. Una volta lo facevo quasi di slancio, con un sorriso che squarciava la triste foschia mattutina. Ora invece lo facevo con una pesantezza fisica e mentale che non conoscevo affatto. La testa era come schiacciata, il fiato grosso, il petto rauco, l'umore ombroso. Ne restavo sorpreso, non sapevo come affrontare la giornata. Era una novità per me. E poi spesso non ce la facevo a scendere dal letto, lo trovavo uno sforzo mostruoso. Ma c'era Adriana che, in qualche modo, riusciva a rimettermi in vita e a farmi uscire di casa quasi decente e con il piglio di un tempo. Ma quel piglio durava sì e no qualche misera ora.
Dopo tre ore che ero al lavoro cominciavo a perdere colpi, sentivo le gambe appesantirsi e la mente ottenebrarsi, sbuffavo in continuazione, avvertivo un leggero e fastidioso tremore in tutto il corpo. Allora mi infilavo nel cesso e scolavo la mia bottiglietta di vodka assoluta. Uscivo e tornavo sorridente tra i miei libri e i miei clienti. Ma mi accorgevo che non era come un tempo, come uno o due anni prima. La mia voce si impastava, il tono s'alterava, i gesti si facevano più frenetici, gli occhi si stranivano. In passato quando bevevo non mi conciavo mai come buona parte degli ubriaconi, quando bevevo sentivo un benessere del tutto particolare, mi sentivo il migliore, il più in gamba di tutti, capace di fare qualsiasi genialata, riuscendo sempre a nascondere da qualche parte recondita del mio corpo e del mio essere la quantità enorme di alcol che ingerivo. Ora invece le cose stavano cambiando. Arrivavo a fine giornata lavorativa quasi stravolto, l'alcol colava vistosamente dalla fronte e dagli occhi. Uscivo dal grande magazzino e mi dirigevo subito al bar a bere un paio di aperitivi forti, poi, come impazzito, correvo al supermercato a comprare vino e vodka. Lo facevo ogni giorno, il mio monolocale era pieno zeppo di bottiglie, erano ovunque, anche nel cesso, e Adriana non faceva in tempo a toglierne qualcuna che ne trovava altre in ogni angolo della casa. Tornavo a casa per riposare un po’. Mi buttavo rovinosamente sul letto, ascoltando musica e rifiutando tutte le chiamate che amici e conoscenti mi facevano. Adriana non tornava che a cena, lavorava anch'ella. Bevevo ancora qualcos'altro, mangiavo pane e niente, e scappavo in sala prove dove mi aspettavano gli amici della band. Ormai arrivavo sempre in grave ritardo e in condizioni quasi pietose, addirittura ridicole. Parlavo sempre di meno con loro, prendevo il sax e facevo cenno che si potevano iniziare le prove. Cominciavo io ma non cominciavano loro. Portavo pezzi nuovi da provare ma da qualche tempo mi dimenticavo di avvisare i compagni.
- Bè, perché non suonate? Perché non mi seguite?
- Che cos'è questa Nando, una jam session?
- Che stronzate vai dicendo? E' il mio pezzo. Non l'avete imparato?
- Cosa avremmo dovuto imparare, Nando? Non c'hai detto niente. Non la conosciamo questa cosa che stai suonando. E non è la prima volta che succede, lo sai?
- Merda. Bè…Volete un po’ di vodka?
- No, Nando, non la vogliamo.
- Che succede, ragazzi? Qualcosa non va? E' la vostra bevanda preferita, no? Ve l'ho portata.
- Senti Nando, volevamo dirti che così non va, non va proprio. Se continuiamo in questo modo non riusciremo a fare nemmeno la copertina di un disco.
- Cos'è, mi state facendo la morale?
- Ti stiamo avvertendo, Nando.
- Bè…Vaffanculo a tutti.
Perdevo sicurezza.
Cominciai così ad avere problemi con la band, soprattutto dopo le serate. Ci dirigevamo al bancone per chiedere la paga e ci accorgevamo di ricevere quasi sempre la metà di quello che invece ci spettava. Facevo il minchione, chiedendo spiegazioni al gestore del club, ma i miei compagni mi rimproveravano che buona parte della paga, durante il concerto, se ne andava a puttane per colpa dei miei sostanziosi drink. Protestavano, sicuramente avrebbero voluto che io rinunciassi alla mia parte che poi non era più mia, perché durante l'esibizione bevevo almeno il triplo di loro. Invece prendevo i soldi dalle mani del gestore, li contavo, prendevo la "mia parte" e me ne andavo incazzato, lasciando i miei amici nel locale. Compravo qualche birra in un bar notturno e me ne tornavo a casa, malinconico e di cattivo umore. Ma c'era Adriana, la cui pace dei suoi occhi e del suo corpo facevano un grande effetto su di me. L'amavo, ma non mi accorgevo che non la stavo amando come lei forse s'aspettava, ma soprattutto non l'amavo come io stesso avrei voluto amarla. Probabilmente nella pace dei suoi occhi cominciava a fiorire dell'amarezza, ma non me ne rendevo conto, o peggio, non volevo rendermene conto.
La dipendenza dall'alcol era la cosa che mi occupava di più.

Mario e Luca, il contrabbassista e il percussionista, mollarono improvvisamente la band, senza darmi spiegazioni, ma Giulio, il tizio del campionatore e che ci procurava gli ingaggi, fu molto schietto.
- Il problema sei tu, Nando.
- Io?!
- Sì, tu, o meglio, la tua dipendenza. Non è giusto fregare i compagni
sulla paga, è una cosa molto brutta.
- Io non frego nessuno!
- E non sta bene venire alle prove e non combinare più nulla di buono. Lo sai che non scrivi un pezzo decente da un sacco di tempo? Lo sai che di questo passo la nostra fortuna e la tua fortuna non esploderanno mai? Rimarremo sempre musicanti da quattro soldi.
- Ma non dire stronzate, Giulio.
- Stai zitto. Io lo dico per te, siamo tutti molto dispiaciuti per quello che stai diventando.
- Oh, oh, perché, che sto diventando?
- Incominci a comportarti come un drogato.
Come un drogato! E perché, cos'ero? E poi, detto da un eroinomane…
Così capii che non avrei più avuto una band stabile, ed era una gran rottura di coglioni, perché avrei dovuto sbattere la testa per cercare ogni volta nuovi musicisti e insegnargli tutti i pezzi, dal primo all'ultimo, perché erano tutti di mia composizione. Cominciavo a non avere più la brillantezza e la spigliatezza di un tempo per tutte quelle cose.
Se si è una persona con eccellenti doti organizzative, se si ha la stoffa del leader, se si è un artista, è sicuro che l'alcol, o qualsiasi altra droga di merda, manda miseramente a puttane tutto questo ben di dio.
Il tempo cominciò a passarmi addosso come una lunga e lenta malattia.
I rapporti con gli altri presero a peggiorare di settimana in settimana, tra lo sconcerto e l'irritazione generale. Il mio modo di comportarmi divenne gradualmente meschino e ambiguo. Spesso rifiutavo in malo modo le visite a casa di amici e conoscenti, oppure li liquidavo inventandomi scuse che però non ingannavano nessuno. Anche il mio estro pian piano m'abbandonava, anche nel male. Andavo sempre meno frequentemente alle feste e nelle serate nei club ci andavo come se mi dirigessi a una tortura. Non ne avevo quasi più voglia e ben presto smisi di comporre musica, limitandomi a riscaldare vecchie minestre insulse o a proporre cover incomprensibili, per non scervellarmi più di tanto. Suonavo nei club giusto per riempirmi una mezza saccoccia, per comprarmi da bere, visto che da più di un anno non acquistavo libri, dischi e non andavo al cinema.

Non ero più in grado di risolvere problemi, o peggio, non ne avevo alcuna voglia. Li accrescevo, alimentando imbarazzi e fastidi enormi a chi mi stava vicino. Scostavo le situazioni difficili, non le affrontavo più, le nascondevo nell'alcol che galleggiava nei bicchieri e nei miei occhi e nella mia testa, forse anche nel mio cuore che cominciava ad avvizzirsi come quello di un vecchio deluso.
I miei amici più stretti mi parlavano di progetti, me li proponevano, cosa che in passato facevo soprattutto io, ma a stento li ascoltavo e chiedevo se per caso in casa ci fosse ancora qualcosa da bere, e se non c'era, mentre loro architettavano anche per me, uscivo e andavo al supermercato a fare scorta di alcolici, di solito pensando soltanto a me stesso. Addirittura, a volte me ne tornavo direttamene a casa mia senza avvisare. Rincasavo, bevevo e aspettavo che rientrasse Adriana, l'unica persona, forse, in grado di farmi tornare un decente essere umano. L'aspettavo in preda alla malinconia, a volte al nervosismo.
Litigavo sovente con gli amici e conoscenti. Mi dicevano che c'erano problemi da risolvere, c'erano amici in difficoltà, ma a me interessava solo che ci fossero bottiglie attorno a me. La mia esistenza ruotava attorno all'alcol, lo cercavo ovunque. Al lavoro perdevo spesso la pazienza con i clienti, soprattutto con quelli particolarmente esigenti o con quelli che io ritenevo fossero degli imbecilli. Se qualcuno veniva a chiedermi di qualche saggista di psicologia, psichiatria e roba del genere, io rispondevo che quella era una libreria e non un ospedale. Se invece qualcun altro mi chiedeva un opinione sull'ultimo "libro" di Bruno Vespa, li prendevo per un braccio e li cacciavo dal negozio. Il capo reparto, che era mio amico, un giorno fu costretto a dirmi che se continuavo in quella maniera sarei stato sicuramente sbattuto fuori. Litigai anche con lui.
- Senza di me non vendereste nemmeno i libri col novantacinque per cento di sconto.
- Non esagerare Nando, non tirartela troppo.
- E' cosi!
- Ascolta, io volevo soltanto dirti che il direttore ti tiene d'occhio, tutto qui. Me ne sbatto i coglioni io di come ti comporti.
- Tu sei come lui.
- Vai a cacare, Nando.
- Tu lecchi il culo al direttore.
- Smetti di bere.
- E tu smetti di rompermi i coglioni!
- Non riconosci i tuoi amici.

Cominciai a scaricare tutte le colpe di qualsiasi situazione sugli altri. Se la colpa era mia io la prendevo, me la strappavo di dosso e la sbattevo in faccia agli innocenti. Io non avevo colpe, le avevano tutti gli altri. Quando qualcuno mi criticava pensando di fare cosa buona e giusta per me, io lo aggredivo dicendogli che era uno stronzo maledetto e che non doveva permettersi di dirmi cose del genere. Quando combinavo casini non avevo dignità, anche nei casi più evidenti e clamorosi. Scaricavo tutto addosso agli altri, violentemente e strafottendomene. Gli altri non mi fottevano mai, io fottevo gli altri. L'importante era avere sempre la possibilità di procurarmi da bere. Mi davano consigli da buoni amici, mi mettevano in guardia, volevano aiutarmi a uscirne fuori, mi rimproveravano anche come si fa con i bambini, ma io, come i bambini, me la prendevo e sfasciavo tutto, tranne le bottiglie piene. Un giorno Alex, il mio pianista, mi strappò una bottiglia di Aglianico dalle mani e buttò il contenuto nel cesso di casa sua, davanti ai miei occhi. Mi assalì una violenza inaspettata.
- Come osi buttare il mio vino nel cesso!
- Prima cosa questo non è il tuo vino, è il mio vino, l'ho comprato io e ci faccio quello che cazzo mi pare. Seconda cosa hai rotto le palle Nando, sei diventato insopportabile. Quando bevi sei disgustoso, non si riesce più a parlare con te e sinceramente ci sta passando la voglia anche solo di provarci.
- Lasciami solo un bicchiere, Alex.
- No.
- Non farlo!
- Sì che lo faccio.
Presi la sua testa e gliela ficcai nel cesso come aveva fatto lui con la bottiglia. Mentre facevo questo gli altri della band cercarono di tirarmi indietro, ma fu impresa ardua, ero come assatanato. Non avrebbe mai dovuto farlo Alex, pensavo nella mia mente di alcol dipendente malato.
Un altro giorno, invece, non avendo soldi, rubai tre bottiglie di vino dalle dispense di casa di Omar, il chitarrista, andandomene via senza nemmeno salutare, mentre lui era al cesso. Avrei potuto chiedergliele quelle bottiglie, ma un alcolista non chiede, pretende o arraffa senza alcuna cerimonia e poi scappa per bersi tutto da solo in un angolo che puzza di merda e di piscio, che importa. Il giorno dopo Omar, esasperato, non poté fare a meno di spaccarmi il naso e abbandonare la band.
- Preferisco suonare marce funebri nella banda del mio paese anziché suonare con un pezzo di merda come te. Non hai più rispetto per nessuno, neanche per te stesso.
- Mi hai rotto il naso!
- Ti è andata bene, avrei voluto romperti il culo.
- Non andare via, Omar.
- Trovati un altro chitarrista, e spera che sia più stronzo di te.
Molti volti, negli ultimi tre anni, si avvicendarono nella band, e molti volti vidi andar via disgustati dai miei comportamenti, ma nello stesso tempo anche estremamente colpiti e addolorati, perché tutti sapevano quello che una volta ero stato. L'unico che teneva duro nella band era Giulio, il tizio del campionatore e vero tuttofare del gruppo. Nella mia follia alcolica riuscivo a rendermi conto che Giulio era l'unica persona, a parte Adriana, che non potevo perdere. Mi rendevo conto che era l'unico che poteva reggermi ancora a galla. Era l'unico che ancora mi sopportava, che ancora forse credeva in un mio recupero. L'unico che non mi torturava le palle con paternali e cose del genere. Probabilmente era l'unico che capiva la mia situazione. Giulio era un eroinomane. A volte ci trovavamo insieme a farci, ognuno con la sua sostanza, anche se lui era molto più consapevole di me e di conseguenza si comportava molto meglio di me con la gente. Ma ben presto persi anche Giulio.
Mi capitò di rubargli del denaro, più d'una volta, e lui, pur essendo un tossico, questa cosa proprio non poteva digerirla. Mi sputò in faccia.
- Puh!
- Che cazzo fai!
- Ti sputo in faccia, ecco quello che cazzo faccio. Mi fai schifo! Rubi ai tuoi amici!
- Io non ho rubato niente, che t'inventi?
- Hai una gran bella faccia da culo a rispondermi così.
- Io non sono stato.
- Ti ho visto, schifoso!
- Tu stai delirando. Sei un tossico di merda, ti butti i soldi nelle vene e te la prendi con gli altri quando non hai più un cazzo.
- Tu mi hai preso i soldi! Per il tuo alcol di merda! Io non rubo mai, lo sai? Con tutto che sono un tossico.
- Sei ridicolo.
- Non mi rivedrai mai più nella tua vita di merda!
Negli ultimi anni Giulio, mentre per colpa mia non si riusciva a mettere su una band stabile, aveva cercato disperatamente ogni volta di aggiustare il giocattolo, occupandosi personalmente di reclutare i musicisti sempre molto scettici nel prendere una decisione. Ora senza di lui nessuno aveva più in mano il gioco dell'organizzazione, e io non ero assolutamente in grado, e non ne avevo voglia. Quindi, con l'addio di Giulio, mandai tristemente a cacare il mio sogno. Da allora non ebbi più uno straccio di band. Mi limitavo, una volta ogni due settimane, a fare qualche tristissima serata in solitudine lì dove c'era ancora qualcuno disposto ad accogliermi. Ma cosa potevo suonare da solo con una voce spenta, un sax scoreggiante e un pianista raccattato a casaccio per strada? Andava quasi sempre male. I gestori dei club o s'immalinconivano o s'incazzavano, e non richiamavano quasi più. E il disco diventò volante. Non lo rividi mai più nemmeno nei miei sogni.
Giulio mi buttò definitivamente nella merda. Ma prima di farlo, credette fosse cosa buona e giusta andare a fare due chiacchiere con Adriana.


 
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