FAVOLA DI UN ALCOLISTA, CAPITOLO 1

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lagrandefame
view post Posted on 24/9/2011, 14:43




Fortuna che ho sempre avuto l'abitudine di dormire a pancia sotto, altrimenti, quella notte, non so proprio come sarebbe andata a finire.
Mi svegliai che già vomitavo, a testa bassa, quasi penzoloni dalla parte destra del letto. Di fronte a me v'era la parete e tra me e la parete vi erano diversi centimetri di vuoto. Vomitavo in quel vuoto e spruzzavo contro la parete; un po’ di schifo andava a finire anche sul cuscino. Non ricordo bene da quante ore stavo dormendo, la stanza era immersa completamente nel buio, e in qualche altro angolo dormiva una coppia di amici. Si svegliarono, mi sentirono vomitare, mi chiesero se andasse tutto bene, io risposi con una specie di belato, e intanto seguitavo a vomitare, praticamente tra la veglia e il sonno, semicosciente. Vomitai per qualche minuto, non finiva mai, un oceano di merda che sgorgava dalla mia bocca spalancata che chiedeva ossigeno. Non mi mossi un solo centimetro, non sapevo, non avevo idea di dove andasse a finire tutta quella melma che straripava dal mio corpo. Quando finii non ebbi la forza di alzarmi per dare un'occhiata a quello che avevo combinato né per andare al cesso a pulirmi la bocca e il grugno. Mi riaddormentai subito, nella stessa posizione, tra il fetore atroce e il naso che colava rimasugli di vomito.
Quando mi svegliai la mattina dopo lanciai un urlo, spaventato di me stesso. Avevo dormito nel mio vomito, e di quel vomito ce n'era dappertutto: nel letto, contro la parete, per terra, dentro le scarpe di una mia amica che quella notte m'aveva offerto il suo letto nella sua casa in città. Era uno spettacolo raccapricciante, vomito ovunque, la cui puzza soffocava. La padrona di casa, la mia amica, fu sul punto di piangere per lo sconcerto, esplodendo in una giustificabile crisi isterica. Gli altri ospiti invece ridacchiavano, per sdrammatizzare.
Così trascorsi un'intera mattinata a pulire la stanza, le scarpe della mia amica e le lenzuola. Rimasi chino non so per quante ore sulla vasca del bagno a cercare di togliere tutta quella marmellata fetida di alcol e cibo dalle lenzuola. Spesso fui sul punto di riprendere a vomitare, ma mi concentrai nel lavoro. Era il minimo che potessi fare per sperare di essere perdonato.

Al tempo non ero ancora un alcolista; ero molto giovane, uno dei tanti giovani che si ubriacava per piacere, perché l'alcol, almeno agli inizi, inebria meravigliosamente, tutto è magnifico e ci si sente capaci di fare qualsiasi cosa, qualsiasi assurdità. Non avevo quasi mai soldi, ma quei pochi che riuscivo a racimolare li spendevo per andare a trovare i miei amici universitari sparsi per il Paese. Andavo a trovarli e finiva sempre allo stesso modo: ubriaco marcio, barcollante da far pena e delirante da far rabbia. Bevevo di tutto, anche le birre sgasate e calde, la cosa più schifosa che un essere umano possa buttare giù, molto peggio che ingollare piscio, penso. Non mi mettevo a letto fino a quando non ero più in grado di pronunciare una sola mezza parola, fino a quando non abbassavo le orecchie, fino a quando non svenivo, con i vestiti addosso. E così accadde quella notte. Allora non ci pensai, ma a pensarci adesso mi vengono i brividi. Potevo rischiare di crepare, quella notte, di essere soffocato dal mio stesso vomito. Una fine non proprio dignitosa e decorosa, direi.
Da quella terribile sbronza, comunque, partì una serie impressionante di terribili sbronze che ha avuto fine soltanto due anni fa, per forze di causa maggiore. A quel tempo, tra i diciotto e i ventitré anni, lo facevo soprattutto per divertirmi con gli amici. Si andava ai concerti o, più spesso, nelle piazze, e si faceva baldoria con gli sconosciuti tra ettolitri di alcol ed etti di fumo nero. La solita vita da studenti. Io non ero studente, i miei non poterono mandarmi all'università, ma facevo la vita da studente: bevute, fumate, musica, donne, feste in piazza, festini in casa. Distruzione. Nient'altro. Poi tornavo a casa dei miei in paese a smaltire silenziosamente le sbornie.
Questa musica andò avanti per quattro o cinque anni.
Poi cominciò la mia vera vita da alcolista, quella seria. A venticinque anni circa la mia esistenza si immerse nell'alcol, senza tentennamenti, senza rimorsi. L'alcol prese ad accompagnarmi in tutto quello che facevo, in tutto quello che ho fatto fino a due anni fa, quando di anni ne avevo trentacinque. Si mischiò nella mia vita con piglio deciso, autoritario, feroce, incazzoso, senza discussioni.

Trascorsi tutto il mio venticinquesimo anno segregato nel mio paese, senza mai uscirvi, senza andare a fare più visita ai miei amici che ormai, tra studi, master e lavoro, vivevano tutto l'anno nelle grandi città del Paese. Passai quell'anno seduto attorno a un tavolino del bar a mandare giù alcol, tutti i giorni. Riflettevo, chiacchieravo con i vecchietti che giocavano a tressette, guardavo le partite di calcio, mi torturavo l'anima in ansia ed eternamente insofferente. Lavoricchiavo da qualche stronzo sfruttatore di tanto in tanto, suonavo il sax, scrivevo raccontini divertenti per una piccola rivista locale. Infine, frequentavo una ragazza cattolica che si sentiva in colpa anche quando mi faceva una sega. In conclusione, tra vodka, rum e assenzio, trascorsi un intero anno a rischiare d'impazzire in un paesucolo di matti e di noia, di morti viventi e di culi grossi scoreggianti messi a sedere davanti alla televisione.
Volevo andarmene, avevo altre ambizioni. Volevo bere in un posto molto più interessante e stimolante. Volevo mettere su una band, far resuscitare Charlie Parker con una musica più proiettata al futuro; volevo vivere da artista, volevo anche lavorare e avere una buona compagna al mio fianco, che mi stimolasse continuamente, che non mi facesse morire di brutti ricordi, di noia, di solitudine e di malinconia, quest'ultimo il mio male più frequente e distruttivo. Volevo vivere, come tantissimi altri.
A ventisei anni, finalmente, me ne andai a vivere in una grande città, nella più grande del Paese, con quattro soldi ma con un lavoretto già in tasca e il mio sax a farmi compagnia. Mollai Anselma, la mia ragazza cattolica di allora; lei non voleva staccarsi dal paese, dai suoi genitori, da tutti i suoi parenti, dalla chiesa di don Oronzo, e dai suoi santi pudori.
- Non posso lasciare tutto questo, Nando. E' il mio mondo.
- Normale. Capisco.
- Capisci?
- Sicuro, tesoro.
- Bè, allora…Allora ci salutiamo qui.
- Ci salutiamo qui, certo.
- E allora…Allora buona fortuna, Nando.
- Buona fortuna anche a te, tesoro. E invecchia presto.
Partii, con la consapevolezza di avere enormi potenzialità.

I primi due mesi mi appoggiai da un caro amico che aveva un bell'appartamento non lontano dal centro e molto ben servito dai mezzi pubblici. Ero contento, anzi ero felice, oserei dire. Io e Marco, il mio caro amico, trascorremmo quei due mesi festeggiando, tra buon vino rosso e molta musica. Uscivamo spesso, quasi ogni sera, e andavamo ad ascoltare band nei club, andavamo alla scoperta di novità e stimoli forti. Davamo festini in casa, invitavamo chiunque conoscessimo per strada. E si beveva. Anche il mio amico era un gran bevitore, entrambi viaggiavamo ad alti livelli. Spesso, nell'euforia, ci vantavamo di essere veri professionisti del bere. Nessuno ci fregava.
A volte invitavamo gente sconosciuta per confrontarci. Spendevamo un mucchio di soldi in alcol, soprattutto vino e rum, e offrivamo, fieri della nostra generosità. Facevamo facilmente amicizia, attiravamo le simpatie delle donne. Eravamo interessanti, talentuosi, estrosi, parlavamo bene. Eravamo ebbri tutto il giorno, entusiasti di poter inventare sempre qualcosa di diverso. Una sola cosa non mancava mai: l'alcol. Per il resto tutto cambiava: amici, donne, locali, musica, stimoli.
Avevo un lavoro in un grande magazzino, reparto libri, uno dei miei sogni. Ho sempre desiderato, tra le altre cose, lavorare tra i libri o tra i dischi. E avevo trovato lavoro tra i libri. Era un lavoro che mi stimolava continuamente, lo svolgevo con il mio stile, mettendoci sempre del mio. Mi divertivo a scoraggiare i clienti ad acquistare libri di scrittori che io ritenevo inutili.
- Desidera?
- Cercavo qualcosa di Umberto Eco.
- Umberto Eco?! E che cosa se ne fa di Umberto Eco?
- Come dice, scusi?
- Lo lasci stare Umberto Eco, soldi sprecati.
- Ma è un intellettuale.
- E cosa se ne fa di un intellettuale? Se lo cucina a cena? Gli intellettuali non hanno carne, non sfamano. Venga con me, le faccio conoscere John Fante.
- Chi?!
- John Fante! Carne per la sua carne! Vino per il suo sangue!
- Me lo consiglia?
- Come se le consigliassi di mangiare nel miglior ristorante della città.
Incoraggiavo i miei clienti ad acquistare anche autori emergenti, favorendo in questo modo le piccole case editrici. I clienti mi ascoltavano con estrema attenzione e otto volte su dieci riuscivo a ottenere risultati positivi. Il mio capo reparto quasi non credeva a quell'inaspettato cambiamento di tendenza nelle vendite, ma era contento. Ben presto divenni il beniamino del grande magazzino e io esultavo e mi gonfiavo il petto, fiero del mio talento. Potevo permettermi di andare al lavoro sbronzo. Una meraviglia.

Nel giro di un mese riuscii anche a mettere su la mia band. Io alla voce e al sax, un pianista, un contrabbassista, un percussionista, un chitarrista elettrico che usava soprattutto effetti, e un tizio al campionatore. Quest'ultimo si occupava anche dei suoni e ci trovava gli ingaggi. La mia, in quanto a musica, era un'ambizione sfacciata: volevo mischiare Charlie Parker con i Radiohead e la Cinematic Orchestra. Il meglio.

Dopo due mesi trovai un grazioso monolocale quasi in periferia a un prezzo molto accessibile ma giusto, un miracolo d'onestà. Così avevo appagato un altro desiderio, seppur in maniera provvisoria: starmene da solo e fare in casa tutto ciò che volevo, anche morire. Il mio caro amico Marco mi aiutò a traslocare e la sera festeggiammo con un oceano di alcol. Il giorno dopo non mi presentai al lavoro. Dissi che avevo un febbrone, mi credettero, così potei godermi pure tre giorni di vacanza. La vita che volevo.
Dal momento in cui mi trasferii nel mio monolocale mi dedicai giorno e notte all'alcol. Facevo tutto, ma proprio tutto, con più di una bottiglia in corpo. Uscivo e facevo amicizia nei bar e nei locali o in piazza offrendo da bere a tutti coloro che io credevo potessero essermi simpatici e che potessero interessarmi. Offrivo soprattutto alle donne, cercando nei loro occhi colei che potesse un giorno farmi compagnia nei miei frequenti attacchi di malinconia, colei che mi portasse via dalla solitudine, bestia sempre in agguato.
Portavo tutte le donne che conoscevo nel mio monolocale. Parlavo loro di musica, dei libri, del mio lavoro, dei tanti estrosi progetti che nuotavano nella mia mente, sparavo sentenze e commenti brillanti su una marea di argomenti, ostentavo la mia sicurezza, cucinando prelibatezze e stappando bottiglie su bottiglie. Parlavo, suonavo, cucinavo e stappavo e le donne, spesso incantate dai miei modi di fare, non s'accorgevano quanto bevevano ma soprattutto non s'accorgevano quanto io bevevo. Quasi sempre si finiva per infilarci a letto e che io mi ricordi, a parte le primissime avventure da ragazzino, non ho mai scopato in stato di sobrietà. Scopare con i fumi dell'alcol è una cosa che trovavo unica nella mia vita, una meraviglia assoluta, era una canzone o un dipinto o un lungo poema. Potevo andare avanti tutta la notte senza mai fermarmi, e non mi capitava mai d'addormentarmi come spesso succede agli ubriaconi che tentano maldestramente di dare il meglio con una triste puttana. Poi, appunto, finisce che s'addormentano durante un rapporto orale attivo, ruttando e scoreggiando. Certo, a volte non riuscivo a venire, ma non era quello che m'interessava. M'interessava l'inebriante esperienza di sfoderare tutto il mio talento alcolico in amore. L'importate era che lei godesse, perché io ero un vero amante, un vero artista. Ho le recensioni da qualche parte.
Quando scopavo sognavo, sorridevo, godevo nel vedermi immerso nell'estro puro. Ma non facevo soltanto questo. Mentre scopavo cercavo anche di arrivare a posare il mio desiderio d'amore sulla donna che sognavo. Non era per niente facile, perché ero un fottutissimo incontentabile, credevo di meritare il meglio. Quando la mattina dopo mi accorgevo di essere stato con una donna che non mi stimolava, m'immalinconivo e andavo in cucina a bere il mio primo sorso seduto a tavola, da solo.
Un'altra esperienza estatica la provavo quando andavo a suonare nei club con la mia band. Si andava nel locale almeno due ore prima dell'esibizione e cominciavamo a bere birra, per non appesantirci troppo e subito. Poi salivamo sul palco e lì ci portavamo cinque vassoi su cui danzava un assortimento vario di alcolici: vino, rum, vodka, assenzio, sambuca ed altro. Dopo aver cantato una strofa, bevevo. Dopo aver suonato un assolo col mio sax, bevevo. Portavo i bicchieri ai miei compagni mentre suonavano. Suonavo benissimo, libero, sciolto, mi sentivo sospeso sul palco. Sentivo di essere il migliore in circolazione, di avere la migliore band della città, di essere al centro di una eccitante attenzione. I club erano sempre pieni, ci venivano tutti coloro ai quali offrivo da bere durante la giornata in giro per la città e ci venivano altri sconosciuti che avevano sentito parlare di noi in giro. Si mettevano tutti sotto il palco e mi guardavano suonare come impazzito e bere senza smettere. Spesso, quando i vassoi piangevano, erano loro, quelli del pubblico, che mi porgevano grossi bicchieri di vodka lemon, sapevano che era il mio long drink preferito. Una soddisfazione sublime. Non suonavamo mai meno di due ore e mezza, dopo andavamo tutti insieme a sederci al bancone a bere con il pubblico, con il gestore e con le ragazze che servivano. Parlavamo come diavoli, trattenevamo la gente nel locale anche fino alle cinque del mattino. Se si suonava il venerdì, il giorno dopo andavo a lavorare, e non potete immaginare in che condizioni ci andavo. Ma non m'importava, ero contento di andare al grande magazzino sbronzo e di parlare coi clienti. Poi, nella pausa, mi fiondavo a mangiare un boccone e a buttare giù la prima bottiglia di vino della giornata. Mi rimettevo a posto, e così continuavo fino alle tre o alle quattro di notte.
La puzza d'alcol riuscivo sempre a nasconderla nel mio essere vitale e nel mio talento nei rapporti con gli altri, nella mia musica incantevole, nonostante la maschera di malinconia. Ma forse anche quella giocava a mio favore.

 
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