Nascituro, prologo e capitolo 1

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elbepi
view post Posted on 4/8/2011, 22:22




L'ultimo scritto risale all'otto marzo, quindi questo viene dopo un lungo periodo di astinenza, dove l'ispirazione era volata via. potrei essere parecchio arruginito, quindi via con le critiche.

Prologo

isolatto! 25 hanni che sonno senza compagna, altro come me. vivo? sì, ho la certeza. Fahme, caldo, freddo, sporco e vivo. reggrediscio, lingua muta, mano chetrema. scrivo, altro segno che vivo, ma dimentico piano. machine! lannullamento. loro hanno scelto. loro non siamo più come me. Loro mi chiamano, io volio essere io, ma stanco e paura. Io sono, ma loro mi prenderano, e non sono.
paura...
aiuto..

Capitolo 1
Il veloce scatto della bestia lo stupì. Quell'animale era sgraziato, informe, eppure lo teneva distante. Correvano nella foresta, contraendo la muscolatura nel tentativo di raggiungere e fuggire. L'egrad sembrava zoppicasse, mentre agitava alla rinfusa la sua dozzina di arti e sbatteva invano ciò che un tempo lo avrebbero fatto librare in aria per alcuni secondi, prima di una lenta planata. Abasi cacciava la sua preda, ora avvicinandosi, ora rallentando, per prolungare l'attesa, prima dell'attacco decisivo.
Negli occhi ciechi della belva luccicavano i raggi del sole che, penetrando tra le ampie fronde degli alberi, creavano un gioco di riflesse in quelle pupille dilatate.
Abasi ne era incantato, amava la bellezza, la natura. Anelava a raggiungerne la perfezione, distaccandosi dall'involucro di carne ed ossa che lo teneva imprigionato, nella solitudine che accompagnava istante per istante la sua squallida esistenza. Un piccolo salto, un slalom per evitare rovi ed erbacce ustionanti, e di nuovo all'inseguimento, l'obbiettivo ben in vista. Stanco ed appagato, allungò la gambata, aumentò i battiti, e, mentre l'egrad strepitava ed emetteva mugolii di sconforto, sentendo ormai la fine vicina, egli assaporava quegli ultimi istanti, scosso da fremiti d'eccitazione. L'odore selvaggio della bestia gli riempì le narici, mandandolo in estasi. Si decise. Lo afferrò, finendo col ruzzolare entrambi a terra. L'animale terminò la recita con l'ultimo sguardo di terrore, cercando di divincolarsi dalla sua vigorosa stretta. Dopo di che, allargò la bocca in una specie di sorriso e tirò fuori la lingua, non resistendo all'impulso di leccare festosamente il suo amico.
Abasi lo adorava e non si stancava mai di ripetere quel gioco, apparentemente violento e malvagio, ma che nascondeva l'enorme affetto che provavano l'uno per l'altro. L'egrad, come sua abitudine, prese a mordicchiare la targhetta che egli portava al collo, sin da quando ne aveva memoria. Ricordava, in tenera età, come gli pendesse dal collo, fin quasi all'ombelico. Col passare del tempo, la collana si era rimpicciolita, o lui era cresciuto, non aveva modo di esserne sicuro. Vi erano incisi dei simboli, che lui aveva interpretato in vari modi, prima di lasciar perdere la questione. Probabilmente era il suo nome, o forse no. D'altronde l'amico non aveva un nome, né desiderava averlo. La sua gente, i suoi luridi simili, possedeva un'arcaica forma di scrittura, sebbene fosse loro impossibile tradurre i stentati grafemi nei corrispondenti fonemi.
Di una cosa era certo: lui e l'egrad non appartenevano alla stessa specie, di questo se ne era reso conto nei primi anni dell'infanzia. Abbandonato alla foresta, invece di sviluppare l'amore per la caccia e per l'altrui sangue versato, Abasi si era dedicato alla contemplazione delle meraviglie che lo circondavano. Maestosi alberi secolari, cespugli rigogliosi, fiori profumati. E così, invece di divenire uno spietato assassino, uccidendo quelle bestie, ne divenne amico.
Non che fosse del tutto esente da colpe. Aveva cacciato e mangiato per anni la carne degli egrad. Doveva ammetterlo, era squisita. Fino al giorno del loro incontro. Era accaduto esattamente come quel giorno. L'inseguimento, l'attesa, la sua bramosia, l'odore pungente della bestia, l'appetito insaziabile. Lo aveva catturato, pronto a sventralo col suo rudimentale coltello. Ma l'animale lo guardò. Quegli occhi vitrei, ciechi, quegli splendidi riflessi di luce. Le ali deformi, storpio. Abasi era poco più che un bambino, non poteva sopportare quella vista senza esserne impietosito. Un aborto ambulante, che pure nella sua estrema imperfezione, era magnifico. Un tassello, dell'enorme mosaico naturale. Abasi si era stupito di come potesse correre con tanta velocità in mezzo a tanti ostacoli, pur non vedendoci. Non poteva ucciderlo, non dopo averlo visto. Lo lasciò andare e l'animale scappò, impaurito. Ma non passò molto che i due si rincontrarono, forse si stavano cercando, e da quel giorno non si staccarono più.
Diventò vegetariano, promettendo che mai più avrebbe fatto del male a quelle nobili creature, che lottavano fino allo stremo contro esseri tanto potenti quanto crudeli. Ricordava con commozione quei momenti, cercando di dimenticare gli orrori compiuti in passato. Il loro aspetto era molto diverso. Eppure egli lo sentiva vicino, l'unico amico che aveva. La sua razza viveva isolata, si odiava a vicenda, cacciava, distruggeva, stuprava, sventrava, si ingozzava. Loro erano le bestie. Abasi non aveva mai avuto un contatto ravvicinato con uno di loro, ma aveva visto le barbarie compiute, le risate soddisfatte a fine pasto, il disprezzo per la preda e per l'ambiente. Un virus che deteriorava la bellezza della foresta, la quale, indifesa, sopportava i soprusi, conscia che molto peggiore era la situazione anni, secoli, millenni prima. La sua razza era poco popolosa, in costante diminuzione. Provavano repulsione per il contatto con l'altro sesso, quindi la riproduzione era difficile. Preferivano sfogare i loro impulsi sessuali negli egrad, come se quegli animali fossero stati creati dalla natura per soddisfare ogni loro capriccio.
Che rabbia provava! Lui era uno di loro, era la feccia, non riusciva a darsi pace. Decise di reprimere quei sentimenti, che lo avrebbero portato al delirio. Con un piccolo balzo, si rimise in piedi. Fu subito imitato dal fedele compagno. Un breve sguardo di intesa e si incamminarono lungo un angusto sentiero, alla ricerca di cibo. Abasi non aveva notato nessun agat nei dintorni, quindi dovevano andare verso l'esterno della foresta, laddove scorreva il grande fiume. Lì ci sarebbe stato sicuramente qualcosa con cui sfamarsi.
Mentre camminavano, un branco di egrad passò loro davanti. Spaventati e sbigottiti dalla strana visione dei due insieme, i più impavidi tra loro si fermarono ad osservarli. Abasi, cercando di essere il più amichevole possibile, andò incontro ad una delle creature, per carezzarla. Quella, dapprima diffidente, si scansò, ma poi, incoraggiata dalla vista dello strano duo, si lasciò toccare, gustandosi l'affetto insperato. Dopo qualche tenerezza, l'animale cominciò ad emettere versi acuti, cercando di strattonarlo, nel tentativo di farlo allontanare. Evidentemente era successo qualcosa. Le belve stavano scappando da qualcosa e quel qualcosa si trovava proprio nel luogo in cui Abasi si stava dirigendo.
Decise di ignorare l'avvertimento, li congedò e si rimise in marcia, seguito e protetto dal compare, il quale aveva fiutato il pericolo. E infatti esso non tardò a presentarsi. Arrivati allo spiazzo erboso dove nascevano gli agat e i loro deliziosi frutti, ora solo fumo e fiamme. Il fuoco stava divorando gli alberi, bruciandone l'energia vitale. Chi poteva essere stato tanto spietato da fare un affronto simile? Abasi non aveva dubbi. Sporchi, maledetti bastardi!
Non bastava l'orribile spettacolo distruttivo a inorridirlo, ma la fame lo rendeva ancora più debole e rabbioso. Si stava facendo buio, il sole era in procinto di tramontare. Inoltre l'incendio si stava propagando e, se fosse rimasto lì a lungo, non avrebbe avuto speranze. Sentiva il calore sulla pelle, prima quasi rilassante, poi con sempre più veemenza. Doveva muoversi, oltre quel punto, al di fuori della foresta, verso l'ignoto. Ma era l'unico modo per trovare degli altri agat. Anche l'egrad scalpitava, innervosito. Proseguire sarebbe stato rischioso, ma tornare indietro era un' ipotesi altrettanto deprimente. Un altro cenno e di nuovo in marcia, risalendo il fiume. Il percorso era leggermente in salita e, dopo alcuni chilometri, si gettarono esausti a terra. Lo scorrere del fiume li cullava verso il mondo dei sogni, mentre il canto dei grilli e lo stormire degli uccelli notturni faceva loro dimenticare la fame, mentre sopraggiungeva il sonno

Il caldo sole mattutino li ridestò dal torpore. Inizialmente dimentichi del perché si trovassero in quel luogo sconosciuto, ricordarono la causa dopo i rimbrotti dei rispettivi stomaci. L'aria era fresca e la rugiada mattutina li aveva bagnati, donando loro un pizzico di sollievo. Finalmente riposati, ripresero ad andare controcorrente, mentre i maestosi alberi di diradavano, lasciando spazio ai piccoli agat, che proliferavano maggiormente ai margini della boscaglia. Ma quello che stupì Abasi non fu tanto la fine delle sofferenze, ora che si accingevano al meritato spuntino. No, non potevano essere stati loro, non avevano mai fatto una cosa del genere. Quella cosa non poteva esistere! Vicino ad una ripida cascata, un gigantesco blocco di una qualche sostanza dura, forse della pietra, si ergeva imponente. Sembrava una sorta di casa, ma non una capanna di paglia come la sua. Era strana, terrificante. La vegetazione non era riuscita ad averne la meglio e nulla sembrava potesse contrastare la sua magnificenza. Qualunque cosa fosse suscitava in lui sensazioni negative, Anche l'egrad si agitava, ringhiando all'indirizzo della costruzione. Ma non era tutto. L'acqua veniva convogliata verso degli strani aggeggi metallici, che giravano grazio all'impeto del fiume. A loro volta, essi erano accoppiati ad una strana macchina, anch'essa rotante, il cui funzionamento era del tutto sconosciuto ad Abasi.
Come diavolo avranno fatto quei mostri a costruire tutto questo? Sono rozzi, non sarebbero capaci nemmeno di erigere un riparo. Ma nessun'altro può essere stato se non loro...
Nei suoi occhi fiammeggiò una scintilla, di rabbia, di vendetta, che all'amico ricordava tanto lo sguardo che egli aveva quando lo aveva catturato la prima volta. Era brutale. Accecato da questo nuovo spirito, Abasi tirò fuori il suo vecchio coltello, che tante vittime aveva mietuto. L'egrad scappò via, terrorizzato. Un primo fendente si scagliò addosso al secondo macchinario rotante. Al contatto, quella cosa emise scintille, che ravvivarono l'ardore della mano distruttrice. Era come loro, era feccia, doveva fare a pezzi le cose. Avevano dato fuoco agli agat, e lui li avrebbe ripagati con la stessa moneta. Un nuovo colpo si abbatté sul duro metallo. E ancora. Finché tutto tacque. Durò solo pochi secondi. Abasi tornò alla ragione, scagliando il coltello a terra e coprendosi il volto per la vergogna. Non ebbe il tempo di riflettere su quanto aveva fatto. Uno, cento, mille grida si levarono dall'edificio. Urli acuti, striduli, di morte. Sembrava volessero dire:
paura...
aiuto...

Edited by elbepi - 6/8/2011, 13:48
 
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