| Grazie Antonio, il tuo punto di vista è molto interessante, che condivido quasi pienamente. Hai proprio ragione, secondo me: a lungo andare l'abitudine rende insensibili, ciclicamente, anche se si è medici e/o infermieri (su quest'ultimi avrei anche un aneddoto tragicomico da raccontare). Sono d'accordo anch'io sul fatto che un'adeguata retribuzione non può rendere un operatore sociale più paziente, anche perché credo che la pazienza sia una delle poche cose al mondo che non si possa comprare. Il mio finale vuole essere provocatorio, perché le associazioni e cooperative che si occupano del sociale, nonché comuni, regioni e ministeri degli interni, giocano sul fatto che un operatore sociale, secondo loro, debba essere per forza un santo, tra l'altro coglione, e che fa questo lavoro solo ed esclusivamente per spirito di carità. Ogni giorno gli o.s. tentano di proporre miglioramenti alle strutture che accolgono le utenze, per rendere loro una permanenza più dignitosa possibile, e ogni giorno i vertici fanno orecchie da mercante, la qualità è per loro solo uno spreco e una perdita nei bilanci; spesso sono costretti a prendere gravi responsabilità senza alcuna tutela; sovente vengono buttati allo sbaraglio senza nessuna garanzia contro utenze particolarmente "sensibili". Tante volte sono costretti a improvvisare, in mancanza di strumenti adeguati, per contenere situazioni e per gestirle nella maniera opportuna. Dalla parte dei vertici non c'è quasi mai un appoggio strutturale. E inoltre la riconoscenza da parte loro (si lavora con le persone per un progetto in cui si crede) latita senza dignità. Quindi, alla fine, l'unica gratificazione (a parte quella che viene da se stessi per il lavoro svolto) resta lo stipendio. Ma anche questo con molte difficoltà. E se non arriva nemmeno questo, l'o.s. sociale un po' s'incazza.
Ho letto anch'io il pezzo di Ylenya. Davvero molto sentito, partecipato.
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